“Squadra vincente non si cambia” è da sempre più la regola del piccolo e grande schermo che del calcio. Picomedia con Vivere non è un gioco da ragazzi non prova neanche a smentirla. E dopo Mare Fuori e Shake continua a scandagliare il mondo dei giovanissimi. Per riunire, in prima serata, la famiglia attorno a temi più o meno attuali.
Così noi, abbastanza indaffarati, abbiamo optato per la versione in streaming, su Raiplay. Disponibile da venerdì 12 maggio, è una serie da 6 episodi di circa 50 minuti. Che beneficia del doppio turno della visione in prima serata, sulla rete ammiraglia, lunedì 15, stasera e domani. Provando a non fare troppi spoiler, vediamo insieme perché guardarlo.
Vivere non è un gioco da ragazzi, il soggetto
Trasposizione abbastanza fedele e aggiornata de Il giro della verità, quinto romanzo dello sceneggiatore Fabio Bonifacci. Come millenials, abbiamo letto il libro dopo aver visto la serie. Pubblicato a settembre 2020, riporta fedelmente il senso di contraddizioni, contrasti e smarrimento di generazioni in preda ad una crisi, economica e di punti di riferimento, oramai infinita.
E riporta in auge un tema che sembrerebbe antico, quello delle droghe leggere e dello sballo. Lo fa attraverso due frasi che non passano inosservate. “…quello che succede quando tu sei fatto non entra nel tuo vissuto, non ci ragioni, non lo elabori. È come un film senza nessuno che lo guarda” che pronuncia una prof. E “…Se fa così male, lo devono dire i telegiornali. Ma lo sapete che in certi posti si calano tutti? Sì, lo sapete, e non ve ne frega una mazza!“. Lo sfogo del protagonista durante un incontro di sensibilizzazione a scuola sull’MDMA.
Il senso della storia che viene raccontata, sia ai giovani sia agli adulti, Bonifacci la sintetizza in una domanda, presa dal libro e inserita nella serie. “Ragazzi, avete 18 anni e una vita sola. Sta a voi decidere se volete viverla davvero o per finta“. Che in tempi in cui fretta, social e problemi sconvolgono anche i grandi coglie in pieno la questione.
Vivere non è un gioco da ragazzi, la squadra
Con Bonifacci coinvolto anche nella sceneggiatura, Rolando Ravello ha messo in cassaforte il risultato. L’attore, conosciuto spesso nei panni del cattivo o enigmatico, sceneggiatore da Ciak D’oro con Perfetti sconosciuti, dopo Immaturi-La serie e Tutta colpa di Freud, conferma di essere il regista adatto a raccontare queste storie.
Picomedia e RaiFiction proseguono un percorso già iniziato, scegliendo la rossa e turrita Bologna come scenario davvero azzeccato.
I sei episodi scorrono veloci il giusto e senza intoppi, dovendo trascinare con sé le riflessioni incrociate di due generazioni, se non allo sbando ad un bivio. E le indagini, tra il serio e il faceto, perché affidate a Claudio Bisio, relative alla morte per “pasta” di uno dei ragazzi.
Vivere non è un gioco da ragazzi, il doppio cast
Protagonista e voce fuori campo è Emanuele Molinari, detto Lele interpretato da Riccardo De Rinaldis Signorelli, appena visto in TV in Luce dei miei occhi. Recitazione asciutta e quasi introspettiva e faccia da bravo ragazzo a cui non mancano dubbi e riflessioni. Il suo giovane bolognese di periferia a scuola con i figli dei ricchi riesce a non sembrare ovvio e banale.
Matilde Benedusi è Serena, descritta dall’autore attraverso Lele, innamorato di lei, come una figura complessa e sfaccettata. “…collezione completa di aggettivi positivi: alta, bionda (nella serie è rossa, ndr), ecologista, bellissima, elegante, intelligente, simpatica, ricca, sensibile, snella, sportiva, studiosa, compagnona…“. Ma lui era capitolato quando aveva scoperto che fosse anche fragile, e quindi umana. Potenza di uno scontro con il palo della rete di pallavolo.
Completano il cast giovane Pietro De Nova lo sfigato e compagno di banco Pigi, Tommaso Donadoni Mirco, Alessia Cosmo che è Patti, la migliore amica di Serena. Luca Geminiani interpreta Spinoza, ragazzo poco incline a citazioni colte ed ispirate che si considera un rospo che nessuna principessa potrà trasformare. Piccola partecipazione per Biondo ex di Amici, al secolo Simone Baldasseroni, che fa Ruggine, rapper con capelli rasta, tatoo e piercing e K smisurati di follower.
Tra gli adulti, accanto a Claudio Bisio–Eugenio Saguatti, davvero convincenti la coppia dei genitori di Lele, Nicole Grimaudo e Stefano Fresi, che parla in bolognese. Che come citazione, o easter egg, si chiamano Anna e Marco.
Lucia Mascino, abbandonati i panni disincantati e un po’ cinici del commissario del Barlume, è Sonia, mamma di Serena e candidata sindaco. Stefano Pesce è Magnani, l’imprenditore spietato che fallisce volutamente e ci proverà con Anna, interprete di tutti i “furbetti del quartierino” che popolano da più di vent’anni la scena economica non solo italiana. Anna Redi è, infine, la professoressa Palmieri.
La trama di Vivere, raccontata a prova di spoiler
Se non hai ancora 18 anni e i soldi per permetterti sciabolate e serate nei locali con privé, a volte puoi ritrovarti coinvolto nel classico meccanismo a valanga. Dal sassolino di far parte del gruppo, a trovarti non solo a parlare di “paste”, ma di andarle a comprare. Fino all’intermezzo in cui, per arrotondare la paghetta, diventi uno spacciatore. E credi di aver ceduto la roba che ha ucciso il tuo compagno di classe.
La storia non trascura i sentimenti che scatena nei ragazzi la morte di Mirco. E si sposta presto su quello che provoca anche nei genitori. Perché, come dice Stefano Fresi-Marco “Nessuno sa cosa fanno i propri figli quando escono“, credendo potesse valere solo per quelli degli altri. Genitori troppo presi, a volte quasi schiacciati, dai loro stessi problemi, non solo economici.
La colonna portante di Vivere non è un gioco da ragazzi è rappresentata dal rapporto con la verità, e le sue conseguenze. Perché se all’inizio giovani e adulti coprono realtà e cose accadute, le vicende e le indagini della polizia, che corrono più o meno parallele, porteranno praticamente tutti a fare i conti con ciò che nascondono o non vogliono ammettere. O ancora non sanno.
Perché guardarlo
Il sottotesto di Vivere non è un gioco da ragazzi viene costruito man mano e ti fa arrivare alla fine concludendo che spesso ci lasciamo riempire la vita da cose senza senso. Presi un po’ tutti, genitori e figli, adulti e ragazzi, da immagini e stereotipi che si autoalimentano, finiamo per perdere il contatto con quello che sosteniamo di… sostenere.
Il viaggio che la vicenda porta a fare ai protagonisti, e allo spettatore, non fa certo sconti. I problemi sono quelli reali ed il ritmo unito al modo di raccontare i percorsi che ognuno dovrà affrontare non parlano dei soliti “buoni sentimenti” da citare sullo schermo, grande o piccolo che sia. Il tutto alla ricerca di qualcosa che è ancora più forte della realtà e che per questo attraversa l’obiettivo ed entra nelle case. Il giro, a volte rocambolesco ma salvifico e necessario, della verità.
Conclusioni
Ben scritto e diretto e ben montato. Con dialoghi che non vanno alla ricerca dei termini giovanilistici e un po’ scontati. O con raffigurazioni di genitori bidimensionali, tutti frasi fatte e paternali politically correct. Stefano Fresi e Nicole Grimaudo riescono a coinvolgere in una storia di una famiglia “normale” in cui davvero in molti potranno riconoscersi.
E l’attesa per un eventuale lieto fine coinvolge lo spettatore sulla scia della presa di coscienza che vivere non è un gioco da ragazzi, ma un’aspirazione ad un senso più compiuto e più complesso di giustizia. E di verità.
Appuntamento stasera e domani con le ultime due puntate. E con le riflessioni che la serie vi porterà a fare, ognuno dal suo personale punto di vista.