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Vivere due volte

Emilio Pardo (Oscar Martinez) è stato illustre professore di matematica: vivere per lui è coinciso con il dedicarsi allo studio dei numeri, tanto da scoprirne uno, primo, impresa non da poco visto che l’insieme da cui pescare è infinito. Per lui le cifre non sono mai state solo cifre, bensì una fede, un linguaggio univoco e meraviglioso ed anche una delle poche cose dotate della capacità di inchiodarlo alla realtà, quando la sua mente si offusca e lo lascia sperso in mezzo alla strada senza ricordare più dove andava o da dove veniva.

Colpa dell’Alzheimer, una delle malattie del secolo, in grado di togliere ai suoi pazienti, compreso l’ostinato protagonista per nulla pronto a perdere la propria autonomia, memoria ed identità; eppure questo drammatico laceramento neurologico non riesce a cancellare anzi semmai lascia affiorare, tra i ricordi di Emilio, il volto e la sensazione di Margarita, giovane ragazza sorridente che lo innamorò a prima vista, quando da studente su un molo scriveva i suoi indecifrabili appunti algebrici, che lo risucchiarono poi nella vita che è diventato.

Vivere due volte

Così decide di ritrovare quella persona speciale che il suo cuore con, e forse senza, malattia non ha mai smesso di cercare e per farlo attraversa mezza Spagna, Valencia-Navarra-Valencia, accompagnato dalla figlia Julia (Inma Cuesta), medico mancato, informatrice farmaceutica, con un matrimonio in crisi, una volontà di ferro ed un’affezione profonda e conflittuale verso il padre, sua figlia Blanca (Mafalda Carbonell), giovanissima adolescente sveglia e sensibile, che giostra la sua disabilità motoria con la stessa agilità con cui maneggia un cellulare ed il compagno Felipe, motivatore di professione, supporto attivo ed emotivo di altalenante successo, fedifrago malriuscito.

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Questi sono gli ingredienti dell’ultima commedia agra, leggera, con tocchi commoventi, distribuita da Netflix da gennaio 2020, con cui la regista spagnola Maria Ripoll dispiega la sua riflessione sulla famiglia, l’amore e la malattia.

Vivere due volte

Dimenticarsi chi si è e che si è, è la drammatica risultante dell’annullamento dell’essere umano che il morbo di Alzheimer mette in atto in modi ancora troppo misteriosi per opporre alle sue drammatiche degenerazioni un freno efficace; non c’è formula perfetta per parlare dell’argomento né in medicina, né tantomeno in cinema, in drammaturgia, o in letteratura generale; per cui buono sembra l’approccio con cui la Ripoll sceglie di utilizzare la malattia: un cavallo di Troia per far esplodere e scandagliare il nucleo familiare con le sue controverse dinamiche, gli inevitabili compromessi e molti microdrammi digeriti con quotidiano e non banale utilizzo di cerotto e sorriso.

In questo caso l’acuta demenza di Emilio è paravento dietro cui si incontrano, si scontrano e si risolvono in una tregua serena anche se passeggera, padre e figlia, moglie e marito, nipote e nonno, figlia e madre: nessuno di questi rapporti parte o rivela grandezze eccelse o abissi disperanti, ma conquista per la capacità di trattenere il dramma in modo ironico, ammettendo la resa solo alle proprie condizioni. Tutti sono quello che sono, o poco più, ognuno rotto in qualcosa, memoria, gambe, fiducia emotiva, ma la patologia devastante e il dolore delle proprie ferite li unisce, senza incupirli o far tremare le reciproche volontà, senza volgere in rassegnazione l’azione nè trasmutare in freddo il calore che sono capaci di emanare.

Vivere due volte

Seppur parta e si sviluppi sostanzialmente in modo classico, appoggiandosi su un piacevole ed ironico buonumore, la commedia non deborda nel melodramma, non si accascia nel già visto, non si fa prevedere: i personaggi non seguono la sorte che si può facilmente immaginare, le sottotrame non si concludono come gli occhi navigati immaginano, la trama sfugge, si immerge e riaffiora con elastica sensibilità ed estro comandato, ma non usuale, seguendo con distratta euforia un viaggio non rettilineo verso la seconda vita di cui si accenna nel titolo, chiave plurima di interpretazione.

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Cambiano in diverso modo molte esistenze del film mentre si intrecciano in un coinvolgente concentrato di bisogni inespressi e riscoperti, concreti e simbolici.

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Nodo focale torna ad essere l’amore, l’imprevisto che luccica all’improvviso nella gabbia del prestabilito e che riscuote lo spirito a nuova vita, così come accade, secondo le parole connesse dello sconnesso Emilio, con il pi greco, numero che spariglia ogni legge matematica per la sua capacità di autoprodursi all’infinito senza che le cifre dopo la virgola siano mai prevedibili.

Così opera almeno l’innamoramento, l’intermittenza del cuore proustiana per eccellenza, che resta in vita ciecamente anche quando tutto il resto sembra spegnersi e che impone ad un uomo di scienza di imbarcarsi in un impresa che in altro tempo definirebbe sragionevole, ora divenuta vitale: ritrovare il proprio amore di gioventù, prima di non sapere più di averne avuto uno.

Vivere due volte

E’ il duello tra la finitezza dell’uomo e l’infinitezza del sentimento già binomio tematico per molti film che accompagnano insieme amore ed Alzheimer, da Away from Her (2006) firmato da Sarah Polley, a Ella e John di Paolo Virzì (2017), a Still Alice (2014), che ha consacrato all’Oscar Julianne Moore.

E’ il tempo ingrato che addolora, separa e cancella bellezze, ammalando anziani in modo irreperibile e meno anziani in modo non irreperibile ma rendendoli brutta copia di sé, privandoli di empatia verso gli altri e verso se stessi, costretti a ritrovare lo slancio vitale in motivatori di professione come il tragicomico Phelipe.

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C’è la compassione che valica e piega il calcolo e c’è la tecnologia moderna che trasforma uno smartphone, un social, un navigatore, da garbuglio hi-tech ad alleato utile in circostanze in cui non avremmo pensato potesse esserlo

Ottimo protagonista è Oscar Martinez, splendido attore di grande incisività, che ricordiamo ne Il cittadino Illustre (2016) con cui vinse la Coppa Volpi a Venezia, che qui regala una performance toccante e calibrata, addestrando corpo e sguardi di Emilio ad un’inettitudine tenera e barbara al contempo; stessa profondità appartiene all’inteprete di Julia, Inma Cuesta, occhi magnetici e luminosissimi in un fascio di energia morbida ed elettrica. Ritmo quasi sempre vivace accompagna spostamenti di ambientazione a catena che trascinano, a volte spiazzano, facendo dialogare, dentro e fuor d’ironia, luoghi e generazioni.

A corollario di inizio e fine, una canzone spagnola malinconica, che, come ricorda nel suo scritto Musicofilia il noto medico Oliver Sacks, che ha fatto della medicina letteratura, “è il modo più sicuro di risvegliare malati di Alzheimer”: con la musica “all’inizio sorridono poi, in qualche modo, tengono il ritmo e alla fine lo seguono, così in un certo senso riconquistano quel periodo delle loro vite e quell’identità che avevano quando hanno ascoltato quelle canzoni per la prima volta”.

Ed è esattamente ciò che accade ad Emilio. La sua storia non è la nostra eppure è capace di appartenerci, ha la grazia di non appesantire e di lasciare aperto pensiero e sorriso: è facile volergli bene.

PANORAMICA RECENSIONE

Regia
Soggetto e Sceneggiatura
Interpretazioni
Emozioni

SOMMARIO

Emilio Pardo luminare di matematica, affetto da Alzheimer, si mette in viaggio con la famiglia per ritrovare il suo grande amore di gioventù, prima di non sapere più di averne avuto uno. Commedia drammatica, familiare e sentimentale, dolceamara, ironica nel pesante, zavorrata nei sorrisi: intreccia agile, la finitezza dell'uomo e l'infinitezza dei sentimenti. La malattia come ogni imperfezione è paradossalmente portatrice di vita.
Pyndaro
Pyndaro
Cosa so fare: osservare, immaginare, collegare, girare l’angolo  Cosa non so fare: smettere di scrivere  Cosa mangio: interpunzioni e tutta l’arte in genere  Cosa amo: i quadri che non cerchiano, e viceversa.  Cosa penso: il cinema gioca con le immagini; io con le parole. Dovevamo incontrarci prima o poi.

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