Taci. Per le strade di New York si odono parole d’amore del tutto umane. Ascolta. C’è jazz nell’aria, evocato, suonato, inseguito. Ascolta. Piove. La pioggia cade incessante, inzuppa i vestiti, tormenta le pareti degli ombrelli. A Manhattan potrebbe piovere per sempre, perché “è la sua città e lo sarebbe sempre stata”. A Manhattan quando piove pare quasi ci sia il sole, perché quella città lui “la idolatrava smisuratamente”.
Woody Allen, l’artista che mette in scena il proprio narcisismo, che inasprisce l’inettitudine, che incarna i conflitti interiori. Dietro alla sua spessa montatura si nasconde tutto il disagio di una generazione. Irrimediabilmente newyorkese, ineluttabilmente nevrotico. Di tanto in tanto Allen sa essere una vera seccatura: in lui ci si ritrova, ci si compiange, e ci si detesta per riscoprirci così mugolanti davanti ai crucci esistenziali. Ma Allen è ciò che siamo: disadattati e verbosi, e forse ciò che ci infastidisce davvero è scoprirci dannatamente meno brillanti di lui.
Bandito dai circuiti distributivi in patria, sedotto e abbandonato da Amazon, sembra davvero che non potesse che piovere nel cielo sopra a Allen. Ma nonostante le minacciose saette solo parzialmente celate dai suoi adorati grattacieli, Allen ha saputo mantenere ben salda la presa sul suo ombrello, e “Un giorno di pioggia a New York”, ora nelle sale italiane grazie a Lucky Red, ha tutte le carte in regola per farci assaporare la grazia della leopardiana quiete dopo la tempesta.
New York è ingombrante, mito e imprevisto. I vizi alleniani penetrano nella carne di Thimothée “Chiamami col tuo nome” Chalamet che si ritrova a camminare per le vie di Manhattan, sconsolato, con le mani in tasca, afflitto da una nostalgia fuori dal tempo. Il demone al neon Elle Fanning, sprovveduta fidanzatina che si abbandona alla metropoli tentatrice, al contrario non se ne sta con le mani in mano, marca a uomo la sua ambizione, rincorre lusinghe e illusioni. Nel tribunale urbano di cemento e sogni di “Un giorno di pioggia a New York” la sentenza è affidata alle carnose labbra della mordace Selena Gomez: “La vita reale è per chi non sa fare di meglio”.
Gatsby Welles (T. Chamalet), un nome che sembra appartenere ad un altro tempo. Un nome che ha il sapore del cinema e della letteratura. Cresciuto sotto il cielo di New York, lettore onnivoro e genio nel poker, Gatsby è intelligente e malinconico. Un po’ giovane Holden, un po’ Rain Man, pienamente Allen. Lei, Ashleigh Enright (E. Fanning) è nata dal sole delle campagne. Le luci della città la confonderanno e abbaglieranno, tanto da farle dire che Kurosawa è un grande maestro europeo, tanto da farla divenire succosa preda di non troppo astuti inganni.
In “Un giorno di pioggia a New York”ci sono i due mestieri più antichi del mondo, il secondo dei quali, ci dice un appuntito Woody, è il giornalismo. Ci sono incontri, sospiri e rivelazioni. Un cliché di romanticismo come un giro in carrozza a Central Park, una sosta davanti al Plaza, e una traboccante nostalgia per la Manhattan in bianco e nero. Ci sono imbrogli, desideri e ambizioni. Un girotondo di amori che produce un gran frastuono, qualche vertigine, e un memorabile appuntamento sotto l’orologio. Mentre la pioggia continua a scendere scrosciante.
Una pioggia battente, continua, che sembra essere costantemente attraversata da raggi di luce avvolgente, calda, rassicurante. È questo il regalo della fotografia di Vittorio Storaro (vincitore di tre premi Oscar, per Apocalypse Now, Reds e L’ultimo imperatore). Le luci anti-naturalistiche di Storaro sanno imprimersi con vigore in ogni scena, sono uniche ma sempre misurate, conservando i raggi di luce più rivelatori per le scene più segnati. La cornice di luce in cui è avvolta la madre di Gatsby durante la sua confessione rimane incisa nella memoria dello spettatore, incancellabile così come solo l’arte sa essere.
Intelligenza, diffidenza e disincanto. Woody Allen si conferma il poeta contorto e cerebrale della contemporaneità. Ironizza sui sorrisi posticci e sul fascino delle facili promesse, sull’arrivismo di provincia e su quella piccola borghesia, lusingata e insicura, perennemente in affanno, timorosa di non-essere abbastanza.
La felicità non è mai dietro l’angolo, gli uomini immersi nella realtà ci hanno già rinunciato. Solo i sognatori hanno il coraggio di continuare ad inseguirla. Allen questa volta sceglie di credere alla favole.
“Si può vivere con chi non trova romantico camminare sotto la pioggia?” ci domandava Allen in “Midnight in Paris”. Il cineasta di New York sembra aver trovato da sé una risposta definita. Solo chi sa eroicamente dimenticare l’ombrello, potrà assaporare la vera bellezza. Chi sa lasciarsi sorprendere dalla vita, sotto una pioggia assordate, saprà nutrire l’aspirazione alla felicità.
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