Nel 2017 il giovane regista Cory Finley (poi dietro la macchina da presa anche per Bad education, nel 2019) porta a compimento il proprio lungometraggio d’esordio. Si tratta di Thoroughbreds, in Italia anche noto con il titolo Amiche di sangue, occasionalmente utilizzato.
Il film, di cui Finley è anche sceneggiatore, è stato presentato in anteprima al Sundance Film Festival, dove ha incontrato il gusto di pubblico e critica. La trama, che si sviluppa nell’arco dei novanta minuti di durata della pellicola, e i toni circoscrivono la pellicola nell’area d’influenza del thriller. Il film è attualmente disponibile sulla piattaforma di streaming Netflix.
La trama del film
Amanda (Olivia Cooke) e Lily (Anya Taylor-Joy) si conoscono sin da quando sono bambine, ma il rapporto che le lega è di natura non convenzionale. Mai nemiche, ma neppure profondamente amiche, il legame che le unisce è sempre stato più vicino ad una profonda conoscenza.
La peculiarità del loro rapporto è indubbiamente derivante anche dagli atipici tratti caratteriali delle due giovani ragazze. Amanda è distaccata, cinica, manca completamente di empatia; Lily, dietro ad una patina di precisione ed educazione, è pungente e rasenta l’isteria.
Amanda viene emarginata dai suoi pari a seguito di un’orribile misfatto che la giovane ha compiuto sul proprio cavallo, e le sue giornate trascorrono tra noia e solitudine in attesa di venire convocata in giudizio per aver commesso violenza contro l’animale. Il quotidiano di Lily, invece, apparentemente impeccabile e lussuoso, nasconde un forte malcontento.
Dopo la morte del marito, infatti, la madre di Lily (Francie Swift) ha sposato l’abbiente Mark (Paul Sparks). Lo scostante patrigno e la ragazza faticano però a trovare un loro equilibrio.
Quando Amanda e Lily vengono costrette a passare del tempo assieme, la prima non manca di notare l’astio che la seconda cova nei confronti del patrigno e le propone soluzioni estreme per volgere a proprio favore la situazione.
Influenzata dalla mentalità di Amanda, Lily pianifica un attacco ai danni di Mark. Per portarlo a termine, coinvolge nel suo piano – ricattandolo – anche Tim (Anton Yelchin), uno spacciatore poco più grande di lei, che nasconde il proprio infantilismo dietro a manie di grandezza. Ma, tra complicazioni e ripensamenti, il piano si sgretolerà con il passare delle ore, e le conseguenze influenzeranno le vite di Lily e Amanda, aiutandole a prendere coscienza di loro stesse.
I personaggi e le interpretazioni in Thoroughbreds
Sebbene le protagoniste siano due ragazze adolescenti, la scrittura dei personaggi – fortunatamente – esula del tutto da quella che è l’ideazione del più canonico tipo di protagonista femminile adolescenziale.
La sceneggiatura, in effetti, fornisce due ritratti piacevolmente atipici, non convenzionali, ma non per questo dissonanti o contraddittori. Marchio di fabbrica di entrambe le protagoniste, indubbiamente, è la loro cinica impassibilità (manifesta in Amanda, latente in Lily), la loro pressoché totale mancanza di empatia.
Tale elemento ha fatto sì che in molti reputassero Thoroughbreds il degno erede di un precedente illustrissimo, l’American psycho di Mary Herron con protagonista Christian Bale nei panni dell’iconico Patrick Bateman.
Chiamate ad interpretare questi ruoli, le giovanissime ma non per questo meno capaci Olivia Cooke e Anya Taylor-Joy (rispettivamente classe 1993 e 1996) riescono brillantemente nel compito affidato loro, elevando esponenzialmente il valore del film.
Con la sua buona performance, intenzionalmente scevra di qualsivoglia manifestazione di emotività, Olivia Cooke conferisce spessore e credibilità al personaggio di Amanda. In questo caso siamo ben lontani dalla fragile e spaventata Emma Decody che Cooke ha interpretato nella vacillante serie televisiva Bates motel (ispirata all’hitchcockiano Psycho ma di tutt’altro spessore rispetto alla fonte su cui si basava).
Siamo tuttavia altrettanto distanti, ad esempio, dall’adolescenziale Samantha che Cooke avrebbe interpretato l’anno successivo in Ready player one o all’impetuosa Lou da lei incarnata in Sound of metal di Darius Marden.
In Thoroughbreds l’attrice dimostra non solo di aver raggiunto un livello di maturazione più che soddisfacente se confrontato a quello dimostrato nei suoi lavori precedenti, ma anche di riuscire a leggere perfettamente nelle complesse intenzioni dello sceneggiatore.
Sorprendente, e più che convincente, anche la performance di Anya Taylor-Joy, soprattutto se si considera la poca distanza temporale che intercorre tra il suo esordio attoriale, avvenuto nel 2015, e Thoroughbreds (2017).
Elegante e pungente come in tutte le sue interpretazioni, nel film Taylor-Joy non è forse tanto matura quanto risulta, ad esempio, nella più recente miniserie di cui è protagonista (La regina degli scacchi). Mantiene però l’espressione enigmatica e gli atteggiamenti criptici di cui aveva fatto sfoggio già in The witch (Eggers, 2015), elevando indubbiamente però il proprio livello attoriale rispetto a quello dimostrato, ad esempio, in Split (in cui recitava a fianco di un magnetico e impareggiabile James McAvoy).
Ampiamente convincente, nel film di Finley, anche Anthony Yelchin, alla sua ultima interpretazione prima della prematura scomparsa.
La sceneggiatura e la regia in Thoroughbreds
Uno dei vari punti di forza del film è certamente la sceneggiatura. Lineare ma mai piatta, chiara ma non noiosa, la scrittura della pellicola si rivela indubbiamente efficace con il dispiegarsi del minutaggio.
La linearità della narrazione lascia ampio spazio alla regia per indagare le zone d’ombra delle protagoniste, reale elemento distintivo in Thoroughbreds. Inoltre, la suddivisione della storia in capitoli rende la narrazione coesa e strutturata, dimostrando quanto la fase di sceneggiatura sia stata effettivamente studiata.
Tale suddivisione, peraltro, richiama una divisione in atti non casuale, in questo caso, se si pensa che la storia era stata inizialmente concepita da Cory Finley come opera teatrale ed è diventata solo in un secondo momento creazione cinematografica.
La regia, coadiuvata da un magistrale uso del sonoro (della musica ma, soprattutto dei silenzi), contribuisce a creare un profondo senso di sospensione che caratterizza il film, di stasi immediatamente precedente ad un’imminente tragedia.
Inoltre, contrariamente a quanto accade di solito, la macchina da presa lavora in modo controintuitivo sull’aridità emotiva dei personaggi. Non tenta, infatti, di colmarla creando un legame di empatia con gli spettatori, ma al contrario riflette sullo schermo con sincerità le personalità e il cinismo delle protagoniste.
Svariati dunque sono i meriti del regista/sceneggiatore, e risultano esponenzialmente lodevoli se si considera che siamo di fronte ad un’opera prima, ad un debutto cinematografico.
Il minuzioso labor limae registico di Finley, aiutato da una sceneggiatura ricercata e funzionale, viene elevato dalle buonissime performance delle mirabolanti attrici protagoniste concorrendo alla creazione di un prodotto efficace, un film di genere tanto classico quanto fresco e studiato.