Dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna a reggergli il trono. Si dice. E’ detto. Che significa in concreto? Per Joan Castleman (Glenn Close), ad esempio, sembra tradursi nell’accudire un marito ingombrante, impegnativo, scrittore di fama mondiale, al quale nel cuore della notte viene comunicata la vittoria del premio Nobel per la letteratura.
Il marito in questione è Joe Castelman (Jonathan Pryce), noto come il più famoso romanziere del suo tempo, colui che con i suoi scritti ha riformato e condizionato il modo di fare narrativa nelle giovani generazioni, personaggio implacabile ed impunito, magnetico e seducente, rinomato plurifedifrago, dal cuore appoggiato a delle pasticche e la bocca spesso intenta a masticare dolci, disordinato, passionale, un adulto bambino, brillante, di un intelligenza cinica, elegante, a volte impulsiva a volte radicalmente calcolata.
Joan è l’amore della sua vita, come lui spesso ripete nel film, colei che gli organizza la vita, lo disciplina nelle medicine che deve prendere e nella quotidianità spicciola, dentro e fuori il lavoro, è lei ad ammorbidire ogni scontro familiare con il figlio maggiore David, anche lui deciso a percorrere le impegnative orme paterne nel campo della scrittura; è una madre amorevole ed una compagna devota, è la sua segretaria, la sua consigliera, la sua guardarobiera, la sua badante e la futura accompagnatrice sul palco di Stoccolma: tante, troppe cose insieme per non chiedersi chi sia e cosa desideri unicamente per lei stessa, Joan.
Dove vive solo per sé questa moglie perfetta, oltreché nell’ombra gigantesca e parassita del marito. A queste domande il viaggio in Svezia per il ritiro del prestigiosissimo riconoscimento, darà una brusca scossa ed altrettanto irrimediabili risposte: le scelte di vita si pagano sempre, nonostante la complessità dei sentimenti ne offuschi quasi sempre i confini tra evidentemente giusto ed evidentemente sbagliato.
Tratto dall’omonimo romanzo della statunitense Meg Wolitzer, adattato per il grande schermo da Jane Anderson (sceneggiatrice tra l’altro de Gli anni dei ricordi e della miniserie televisiva Olive Kitteridge), il film diretto dallo svedese Bjorn Runge ha debuttato al Toronto Film Festival nel 2017 ed è valso un Golden Globe per la miglior attrice protagonista in un’opera drammatica alla magnifica Glenn Close, oltre alla sua ennesima candidatura agli Oscar 2019.
E’ un duello in punta di fioretto non senza ferite sanguinanti, la resa dei conti che sommessamente, per approssimazioni, ma senza cedere di intenzione, portano avanti i due coniugi: davanti alla pubblica e più alta celebrazione di gloria dell’uno si scoperchiano i segreti che li hanno uniti, i patti taciti su cui hanno costruito fortuna e sfortuna assieme, le difficoltà, le frustrazioni, gli anni di rinunce, i compromessi, i peccati e gli errori commessi per emergere, per stare dove si voleva stare e fare cosa si voleva fare.
Un insegnante all’università e la sua allieva dotatissma, un uomo con le idee, una donna con le parole tenaci, un genio conclamato e la sua ghostwriter, una vita di bugie, armistizi e patti di sopravvivenza, che alimentano umori traballanti destinati a tradursi in tsunami imprevedibile; così si sconfessa e si riconferma un legame perverso, ma necessario, desiderato ed odiato al contempo, consapevole e malato, comunque, in qualche modo, puro.
Diretta, a-didascalica ed intelligente riflessione sulla figura femminile dai tempi moderni alle epoche contemporanee, l’opera contiene più di uno slogan, di un hashtag, di un “passo indietro”: chi ha scelto di vivere nell’ombra, o di, come dice la stessa Joan, “fabbricare re”, esiste, con il benestare di ogni girl-power; può esserci felicità anche così, offrendo il proprio genio e le proprie personali capacità al compagno, per amore, incastonandogli una vita da favola, vivendola di riflesso, buggerando un mondo maschile che non avrebbe mai tollerato l’ascesa di donne sconosciute o anonime all’attenzione letteraria collettiva.
Certo è una felicità con data di scadenza, “ipotecata”, poiché anche in caso di fortuna, arriva sempre il momento della chiusura dei conti: l’identità e la paternità di un talento devono coincidere, che ci sia o non ci sia di mezzo l’amore o il sesso di appartenenza; altrimenti ci si sbriciola inevitabilmente, e la caduta può fare più male del ragionevole o, peggio ancora, del prevedibile.
Dialoghi razionalizzati al centesimo, per una parte testuale elegante, ragionata, strutturalmente non sorprendente, parzialmente prevedibile, ma non inefficace; la coppia di oggi si alterna alla corrispettiva di ieri, con una giovane Joan, Annie Stark, reale figlia della Close, che dalla madre testimonia di aver ereditato carisma e forza scenica.
Luci fredde che covano il calore del non detto, scivolano negli interni spesso troppo angusti per le macerie della vita e debordano dagli occhi dei protagonisti, occhi sui cui la macchina da presa resta incollata a lungo e con frequenza, tanto da avere l’impressione di cogliere ogni beat espressivo che li attraversa, ogni passaggio di pensiero, ogni alba di lacrima, da un’euforia, ad una delusione, da uno sconcerto ad un impeto di lucidità, da un rancore estemporaneo ad un rammarico profondo.
Schiva, misurata, con il fuoco pronto ad esplodere parsimoniosamente custodito, la Close sfida se stessa, in una bella prova, a lei congeniale, di rigore e calore, di esasperazione e nascondimento, oltre la tenerezza del suo corpo, la raffinatezza della sua presenza, la nettezza di ogni centimetro di riscossa. Pryce crolla e si ricompone come un guitto con lo spirito di un quattordicenne bastonato ed infervorato, si dona alla partner in un’intesa spontanea dall’alto valore recitativo.
Su un binario parallelo il ritratto della scrittura, matrigna succhiatrice di energie e dati personali, patriarcale e maschilista, quasi mai capace di rendere nome al merito autentico, che si lascia comprare, blandire, manipolare, come qualunque altra merce di mercato, dimentica di essere arte; al suo altare Joan sacrifica ogni minuto della propria infelice privacy, dandogli la forma di personaggio, che il marito nemmeno ricorda più, trasformando intimi dolori in cibo da asporto per platee fameliche, fanatiche ed estranee.
Così l’arte impone all’artista di perdere i propri pezzi, sottomettendo totalmente la propria vita, e il vincitore non è mai un reale vincitore: resta sguarnito di qualcosa di prezioso, che il primo giornalista scaltro e non amante degli scrupoli gli può sfilare via a ben poco prezzo, basti pensare alla figura di Nathanile Bone, alias Christian Slater, neo-biografo in cerca di scandali.
L’amore e il protagonismo prevedono un difficile equilibrio matrimoniale e quel qualcosa che si deve cedere per mantenere intatto il vincolo, può tornare a chiedere indipendenza in qualsiasi forma e momento. Specie se quel qualcosa è donna.