The Social Network è un film arrivato forse troppo presto. Era il 2010 quando David Fincher si apprestava a dirigere il biopic su una delle figure che più è stata capace di rivoluzionare il mondo in quegli anni. Sembra un anno che piano piano si allontana: nelle memorie, nelle abitudini quotidiane e nel progresso tecnologico il 2010 è ormai superato e già lo si guarda con un occhio nostalgico.
Eppure, Mark Zuckerberg fu capace di cambiare il mondo in soli tre anni: il 2007 ha visto la nascita di Facebook e solo tre anni dopo è uscito il film che narra su schermo le vicende di una storia anche abbastanza controversa. Per questo motivo si dice che sia quasi un titolo presentato con un pizzico di anticipo. Il cambiamento storico però era evidente e, soprattutto, sconvolgente.
The Social Network racconta appunto della nascita di Facebook, incentrando il fulcro della narrazione proprio sulla figura del suo inventore o, per meglio dire, colui che l’ha poi implementato. Come in The Founder, altra opera celebrativa dell’istinto imprenditoriale americano, le grandi figure come Zuckerberg o Ray Kroc non sono state abili nell’avere un’idea che rispondesse alle richieste del mercato ma sono stati furbi nell’adattare un’idea di altri alle aspettative del marcato stesso.
In The Social Network si vede come l’idea iniziale del fondatore di Facebook fosse quella di far girare per l’ateneo un sito becero dove poter commentare (votando anche numericamente) le ragazze dell’università, il tutto dopo una comunissima delusione amorosa che, evidentemente, lo stesso non ha saputo ammortizzare.
Solo in seguito verrà a conoscenza di un’idea migliore, quella dei fratelli Winklevoss, e svilupperà un concetto che avrebbe poi portato lui e il povero Eduardo Saverin (suo collaboratore) a un successo sfrenato. Per creare Facebook i due si sono dovuti immergere nel contesto sociale di Harvard e cercare di adattare il loro prodotto all’ambiente studentesco che li circondava. Iconica la scena in cui, per assumere nuovo “personale”, Zuckerberg organizza un assesment alcolico per vedere chi era in grado di codificare a PC senza cedere al potere inebriante dei drink offerti.
Nel momento in cui il social network cominciava ad attecchire nel tessuto harvardiano, si fa riferimento a personalità famose dell’istituto che già lo utilizzavano o che comunque avevano avuto a che fare con esso. Si nomina anche un’attrice, una star di Hollywood che aveva studiato proprio lì. In pochi sanno che questa celebrità alla quale si fa riferimento è Natalie Portman.
L’attrice, da poco al cinema con Thor: Love and Thunder, collaborò anche parzialmente alla stesura della sceneggiatura. Per essere più precisi, aiutò gli autori dello script a delineare, in maniera dettagliata, le abitudini studentesche di Harvard e i profili socioculturali dei suoi alunni.
In particolare, Natalie Portman avrebbe dato indicazioni sulla struttura dei final club (le confraternite o semplici gruppi di aggregazione che si erano creati e che definivano lo sviluppo sociale di un individuo). Essa stessa dichiarò di aver studiato a Harvard dal 1999 al 2003 e di aver frequentato un ragazzo della rinomata Porcelain (la stessa casa dei fratelli Winklevoss).
Durante una cena con Aaron Sorkin (sceneggiatore) e David Fincher (regista) avrebbe parlato di quelle che erano le abitudini del gruppo studentesco. In particolare, insieme anche ad altre testimonianze, è stato possibile ricostruire il ricorso storico dei social clubs.
Nascono nel 1719 circa, in ambienti fortemente permeati da una struttura gerarchica e piramidale. Ovviamente la natura patriarcale degli stessi è fuori discussione. Solo nel 1991 la perenne costruzione maschile degli stessi ha cominciato a vacillare, accogliendo anche gruppi di giovani donne che stavano investendo nel loro futuro. Si parla addirittura di un riconoscimento mai espressamente e formalmente concesso da Harvard che avrebbe giudicato queste confraternite come dei gruppi di persone poco inclusive nei confronti della gender equity. Dal 1984 al 2018, quindi, questi aggregati operavano sottotraccia e svilupparono delle dinamiche proprie. L’istituto ha poi dichiarato nel 2018 di accettare l’esistenza di alcuni club non single-gender e di riconoscere ufficialmente quei gruppi che fossero aperti all’inclusione.
In The Social Network questa esclusività si percepisce solo fugacemente: sono i Winklevoss a informarci che loro fanno parte del club più importante. Prendono parte a dei vernissage, vanno in canoa (sport rinomatamente di elite) ma per il resto, una volta che Facebook ebbe attecchito del tutto, divenne palese come le barriere di classe erano definitivamente distrutte (curiosare sulla vita altrui incuriosiva tutti, ma proprio tutti). Non si è badato molto (a livello di sceneggiatura) alle differenze; piuttosto il focus è sempre stato l’attrazione che il social ha esperito nel mondo di Harvard.
La brutalità dell’assetto precedentemente indicato non è stata dunque messa in scena fino in fondo ma è importante capire qual è il contesto in cui Zuckerberg ha operato. Natalie Portman ha dato un suo contributo dissociandosi tuttavia da un’eventuale diretta conoscenza con l’imprenditore digitale. Che ci si creda o no è chiaro che il tessuto sociale ha avuto per forza un ruolo essenziale nel condurre all’ascesa Facebook che, senza quel tipo di rete e di relazioni non avrebbe potuto neanche nascere.