La fine di un’epica attraverso i topoi, stilistici e non solo, del suo cinema criminale: Martin Scorsese firma attraverso The Irishman un ideale, litanico, canto d’addio ad un’etica gangsteristica forse mai esistita, certamente idealizzata da lui in primis in capolavori come Mean Streets – Domenica in chiesa, lunedì all’inferno (1973) e Quei bravi ragazzi (1990). Proprio di quest’ultimo titolo la nuova, ciclopica, incarnazione direct-to-Netflix pare una sorta di erede spirituale, fin a cominciare dalla presenza nel cast di due comuni protagonisti, ossia Robert De Niro e Joe Pesci, con Al Pacino quale “terzo incomodo” di lusso. Un trio delle grandissime occasioni, senza dimenticare nomi feticci del calibro di Harvey Keitel e volti iconici come Stephen Graham, Bobby Cannavale e Anna Paquin, nonché un folto nugolo di caratteristi di origini italo-americane a completare perfettamente l’affresco di riferimento. Un’opera fiume, della durata complessiva sfiorante le tre ore e mezza (ma che, a conti fatti, risultano leggerissime nella loro fruizione almeno per un cinefilo smaliziato), che riconcilia con il piacere di una visione atipica e demodé, lontana dai canoni contemporanei e ricca di un fascino primigenio che cattura e avvinghia dall’inizio alla fine.
La storia altro non è che l’adattamento cinematografico de L’irlandese. Ho ucciso Jimmy Hoffa, saggio del 2004 basato sulla vita di Frank Sheeran, sindacalista e mafioso newyorchese che, poco prima della sua morte, ha ammesso l’omicidio di oltre trenta persone incluso proprio il personaggio chiave comparente nel titolo dello scritto. E The Irishman si alterna tra vari “presenti filmici”, in un’alternanza temporale nella quale si susseguono flashback relativi a differenti periodi storici, il tutto per mostrare la scalata al potere, e le future conseguenze, del principale protagonista: veterano della seconda guerra mondiale, Sheeran diventa negli anni ’50 una sorta di corriere per la mafia e scala pian piano i ranghi anche grazie all’amicizia con Russell Bufalino, capo della potente omonima famiglia mafiosa. E proprio qui il nostro inizia a macchiarsi di delitti agli ordini del nuovo boss, acquistando sempre più potere ma rischiando, anno dopo anno, di compromettere i rapporti con la propria numerosa famiglia (in particolare con la figlia Peggy). Una svolta è data dall’incontro con Jimmy Hoffa, rispettato sindacalista sulla cresta dell’onda a capo dell’International Brotherhood of Teamsters, del quale Sheeran diventa prima guardia del corpo e poi inseparabile amico. Ma, come si sa, il mondo della malavita non è fatto per legami di lunga durata e mentre scorrono i decenni, le varie figure coinvolte si troveranno su strade totalmente opposte che le metteranno le une contro le altre.
The Irishman è consapevolmente strutturato come una lunga attesa: fin dall’inizio, introducente i personaggi di Sheeran e Bufalino in versione in là con gli anni, lo spettatore (sia a conoscenza di quanto realmente avvenuto, sia ignaro dei fatti) comprende come un evento clou sia prossimo a venire e la preparatoria esposizione del passato è il necessario mezzo per tratteggiare a dovere le rispettive personalità. Grazie ai fenomenali effetti digitali curati dalla Industrial Light & Magic, le varianti ringiovanite degli attori risultano credibili per gran parte del tempo, con una sola particolare eccezione nella gestione dei movimenti più “action-oriented”, dove il peso dell’età risulta apparente nei movimenti poco fluidi e slanciati dei suddetti. Una minuzia di poco conto sulla quale vien facile chiudere un occhio, vista la maestosità del contesto e la complessità di una narrazione che si accende di sfumature e, complice il notevole minutaggio, permette di scavare a fondo nel privato di questi uomini, schiavi e al contempo complici di un sottobosco banditesco dove tutto viene demitizzato e ricondotto ad un’ottica più verosimile e meno divinizzata.
Scorsese si prende i suoi tempi e lascia spesso a briglia sciolta gli interpreti, liberi di spaziare in duetti di assoluta estasi attoriale: il dialogo in siciliano tra Pesci e De Niro o una delle scene simbolo, la balbuziente telefonata che caratterizza l’ultima parte di visione, strappano applausi a scena aperta e ci ricordano, pur nella loro apparente semplicità, di come il grande cinema necessiti di attori altrettanto grandi per eccellere al proprio massimo. Per buona parte degli eventi la scena rischia di essere “rubata” da Al Pacino, alle prese con una performance istrionica e piacevolmente sopra le righe (come nel suo iconico stile) che lo vede al centro di alcuni dei passaggi più folkloristici e divertenti, in particolar modo nei continui battibecchi con il rivale Tony Provenzano, ma l’alchimia che le tre anziane star riescono a ricreare all’interno della pellicola si equilibra in un esercizio di pari, stratosferica, bravura nel quale viene difficile decretare un vincitore. Se in alcune occasioni The Irishman sembra affidarsi a stereotipi e leit-motiv tipici del genere non è per adagiarsi facilmente su determinati canoni, ma per esaltarli in forma artistica e depotenziarli in ambito contenutistico, nel senso più positivo: attraverso la decostruzione del Mito il regista ne celebra la fine, così come fece Don Siegel per il western classico ne Il pistolero (1976), cantico di un’epoca e di un filone che ne vedeva non a caso nel ruolo principale il gigante del suddetto ossia John Wayne. L’ultima ora è infatti un puro, amaro, dolente e tormentato ritratto di un qualcosa che non tornerà più, sia questa un’idea di come concepire il cinema stesso (con il rischio di trasformarlo in un immenso luna park, seguendo le dichiarazioni dello stesso regista) o di riportare allo stato brado, nudo e crudo, falsi idoli e credenze sulla fascinazione del Male.
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