Se si uniscono insieme due menti come Evan Goldberg e Seth Rogen, alias probabilmente le migliori penne del cinema demenziale americano di oggi, già collaboratori in Facciamola finita, il risultato non può che far preparare lo spettatore a farsi grasse risate in sala. Se poi si aggiunge un grande interprete di commedie come James Franco, in un ruolo stilizzatissimo ma che gli calza a pennello, e una massiccia dose di satira politica politicamente scorretta, allora le aspettative crescono notevolmente. Erano queste le sensazioni che si provavano nel 2014, quando fu annunciata l’uscita nelle sale di The Interview.
Il film, ideato, scritto e diretto dal duo Goldberg-Rogen (quest’ultimo anche formidabile spalla di Franco), si propone di fare ironia pesante su uno dei regimi meno comici della storia: quello nordcoreano di Kim Jong-un (Randall Park). Dave Skylark (Franco) è il più famoso conduttore di talk show sensazionalistici della tv americana, anche grazie al decisivo contributo del suo amico e produttore Aaron Rappaport (Rogen). Quest’ultimo però, si sente frustrato per la sua professione, non all’altezza dei suoi colleghi giornalisti “veri”, che si occupano di notizie di portata nazionale. Vorrebbe fare un salto in avanti, e ci riesce grazie al suo amico, che legge che il Leader Supremo della Corea del Nord è un fan del suo programma. I due, quasi per gioco, contattano il dittatore per un’intervista e, a sorpresa, egli accetta. A questo punto l’occasione diventa ghiotta non solo per i due showmen, ma anche per la CIA, che può sfruttarli per assassinare uno dei nemici più temibili e imprevedibili del mondo. I due intervistatori diventano così surreali killer con un obbiettivo di rilevanza mondiale. Inevitabilmente però le cose si complicheranno in continuazione; tra cerotti avvelenati scambiati per chewing gum, attacchi di tigri inferocite, canzoni di Katy Perry e sexy Segretarie di Stato in realtà contro il regime.
Il film naturalmente generò molte polemiche, e fece fatica persino a vedere la luce. Infatti non appena il regime di Kim Jong-un venne a conoscenza dell’esistenza di un film satirico nei suoi confronti, prodotto dagli acerrimi nemici americani, si fece in quattro per fare in modo che esso non uscisse nei cinema. Già nel giugno del 2014, la Corea del Nord minacciò ritorsioni “senza pietà” contro gli Stati Uniti qualora essi non avessero bloccato la pellicola, definita come una vera e propria dichiarazione di guerra. A novembre, circa un mese prima della sua uscita in sala, la Sony Pictures Entertainment, produttrice del film attraverso l’etichetta Columbia, fu vittima di un attacco hacker proveniente da Pyongyang che ebbe come conseguenze la pubblicazioni di informazioni e dati privati di molti dipendenti della società, tra cui anche di certe star quali George Clooney, Leonardo DiCaprio e Ryan Gosling, oltre che la diffusione sulla rete di alcuni film inediti negli USA. In quel caso il governo coreano prese le distanze dall’attacco informatico, attribuendo tutte le responsabilità al gruppo di pirati informatici noti con il nome di Guardians of Peace, senza però mai dichiararsi costernato per l’accaduto. Le presentazioni della pellicola con la presenza del duo Rogen-Franco furono ridotte all’osso, per evitare l’eccessiva esposizione di quelle che furono senza dubbio le celebrità più a rischio dell’anno. Alla fine, anche a seguito di minacce agli esercenti cinematografici che avessero proiettato The Interview, furono tutto sommato pochi (circa duecento) i cinema che accettarono di inserire nella programmazione la pellicola satirica. In Europa, invece, The Interview non è mai uscito nelle sale, ma direttamente in streaming e poco dopo nei passaggi televisivi. In Italia è arrivato direttamente in home video.
L’inevitabile flop al botteghino (il film è costato 40 milioni di dollari e ne ha incassati meno della metà), tuttavia non ha impedito che si parlasse del film, anzi, forse ne ha accresciuto la fama in tutto il mondo. Detto questo sarebbe inutile analizzare una pellicola prendendo in considerazione come parametro fondamentale il caso mediatico da essa generato. È invece giusto e corretto che si analizzi il film semplicemente per quello che è: un discreto esempio di commedia demenziale pungente e dissacrante, come del resto ci ha da tempo abituati il team creativo.
C’è chi ha elogiato The Interview soprattutto per l’originalità del tema, ovvero dell’oggetto stesso di satira, la Corea del Nord di Kim Jong-un. Alcuni sono persino arrivati a scomodare il genio di Charlie Chaplin, paragonando il lavoro di messa alla berlina del “mostro”, vale a dire della più grande paura degli Stati Uniti, compiuto da Seth Rogen e Evan Goldberg, con la straordinaria intuizione portata sullo schermo dal comico e regista londinese nella produzione del suo Il Grande Dittatore. Ovviamente anche solo pensare di poter fare un discorso serio mettendo in confronto non le due pellicole (ci mancherebbe!), ma l’idea originaria di esse, non sta né in cielo né in terra. Anche perché l’ironia sulla Corea del Nord e sul suo Leader Supremo non è esattamente una novità nel panorama della satira americana. La serie South Park da anni porta avanti una vera e propria campagna di messa in ridicolo del leader attuale e di suo padre, dittatore prima di lui. In più si possono trovare centinaia di meme, video e contenuti di vario genere e forme su questo tema, basta cercare su internet. Insomma, la premessa del film può apparire come originalissima o geniale, solo ad occhi poco aperti.
Ecco che allora, inevitabilmente, quantomeno nel pubblico d’oltreoceano, le aspettative si spostano tutte sul film, e soprattutto sulle gag escogitate dai registi. Anche da questo punto di vista The Interview delude abbastanza. Le scenette comiche di cui si fanno artefici prevalentemente i due protagonisti, sono abbastanza trite e ritrite, in qualche modo già viste non solo nei loro film precedenti, ma in generale nel contesto della commedia politicamente scorretta americana. Come non pensare al Todd Philips di Una Notte da leoni quando assistiamo alla scena con la tigre a cui Rappaport scampa per miracolo (ma non senza successive conseguenze fisiche). In più, il ricorso all’umorismo pecoreccio e scurrile e l’ossessivo affidamento agli stereotipi culturali non solo contro il nemico ma anche nei confronti degli Stati Uniti, di solito tratto caratteristico ed elemento di esilarante comicità, soprattutto per la maniera in cui viene scritto, in questo caso non riesce mai davvero a fare suo lo spettatore, risultando un po’ stantio. Funziona, invece, il fatto che la gerarchia comica iniziale (Franco macchietta e Rogen instancabile spalla) sembri spesso subire un ribaltamento, senza che esso si realizzi mai del tutto. Skylark è nei fatti un deficiente e lo rimane anche quando da lui dipendono le sorti della sua nazione e forse del mondo; Rappaport è il classico diligente ma simpatico, che non perde mai il suo tipico aplomb nemmeno quando è costretto a nascondere un gigantesco oggetto metallico nel proprio sedere.
Ottima, invece, almeno dal punto di vista del messaggio che i registi volevano esprimere, è la caratterizzazione del Leader Supremo della Corea del Nord. Kim Jong-un ci viene presentato nella doppia veste di ragazzo sensibile e costretto a ricoprire un ruolo più grande di lui, e di spietato psicologo e manipolatore dell’animo umano, per incastrare i propri nemici. Da un lato, per buona parte del film, sembra sentire come un fardello il peso dei venticinque milioni di coreani che lo vedono come un dio, ma poi scopriamo che il ruolo dell’agnellino è solo recitato per ingannare Skylark, in modo da manipolarlo anche nell’intervista e ridimensionare la propria reputazione a livello globale. Inutile dire che il conduttore ci casca con entrambi i piedi, credendo davvero che il “povero Kim” ami ascoltare Katy Perry quando va in giro col suo carro armato e abbia avuto conseguenze nefaste in seguito al rapporto con suo padre, salvo poi rivelarsi come una sorta di pazzo scatenato, disposto a distruggere il mondo semplicemente per vedere riconosciuta la propria fama di duro.
Da questo punto di vista la satira funziona abbastanza, riuscendo a fare una buona ironia su un argomento quantomeno spinoso. Tuttavia, nel bilancio generale The Interview non convince pienamente, risultando per larghi tratti troppo abbozzato e poco pensato. Dai due creatori del film era lecito aspettarsi molto di più.