Nel 2021, forte del successo dei precedenti Después de Lucia e Chronic (rispettivamente vincitori del premio Un Certain Regard nel 2012 e del Prix du Scénario nel 2015 al Festival di Cannes) Michel Franco si dedica al suo settimo lungometraggio, Sundown. Per l’occasione il regista – in questo caso anche autore, montatore e produttore – torna a collaborare con un sempre capace Tim Roth, già incontrato nel percorso che ha portato alla realizzazione di Chronic. A conferma del successo riscontrato dalla mente creativa di Franco nei maggiori circuiti cinematografici europei, l’opera in questione viene presentata in anteprima alla 78a Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, in concorso per il Leone d’oro al miglior film. Con i suoi esili 83 minuti di durata la pellicola, di natura drammatica, costituisce un esempio di scrittura del tutto peculiare, che per quanto atipica e lontana dal mainstream ha saputo incontrare il favore della critica.
La trama del film
Il londinese Neil Bennett (Tim Roth) è un benestante e imperturbabile uomo di mezza età. Si trova ad Acapulco in occasione di un rigenerante ritiro vacanziero con i giovani Colin e Alexa, di cui è zio, e con la loro madre, sua sorella Alice (Charlotte Gainsbourg). Quest’ultima è a capo di un’impresa che genera ingenti guadagni. Il loro soggiorno infatti ha per sfondo un lussuoso e pacifico resort, in cui le giornate sono scandite da intrattenimenti giocosi e relax incorniciato da acque cristalline. D’un colpo però i Bennett sono riportati alla frenesia del quotidiano, e il richiamo all’ordine è dei più brutali e traumatici. A causa di alcune complicazioni familiari, infatti, Alice e i due figli si affrettano a tornare alla grigia capitale inglese, ma Neil celandosi dietro ad una pretestuosa argomentazione sceglie di restare ad Acapulco.
Abbandonato lo sfarzoso resort e spogliatosi di ogni velleità, avvia la sua permanenza in una misera e avvilente struttura alberghiera e si inserisce nella vita della comunità del luogo. Trascorre ore su ore in spiaggia, chiuso in una quasi completa riservatezza, e inizia una frequentazione con Berenice (Iazua Larios), una giovane del posto. Con lo scorrere dei giorni, sebbene tragga beneficio dalla genuinità del contesto in cui si è immerso, inizia a farsi sempre più manifesta nel taciturno Neil una preminente vena apatica, quando non atarassica. Contemporaneamente, quello che in principio si profilava come il più idilliaco dei paradisi tropicali rivela tutta la sua crudezza e brutale violenza. Neil sembra starsi allontanando dal percorso tracciato per la propria esistenza, rifiutando carriera, famiglia e ricchezza, tanto che anche una serie di tragici episodi e rivelazioni faticheranno a riportarlo alla sua routine, che pare voler rifuggire ostinatamente.
Il racconto di una stasi anti-narrativa
Sundown si rivela capacissimo di riflettere e integrare al proprio interno molti dei leitmotiv narrativi e delle tendenze cinematografiche di quest’ultima annata. Il film ripropone infatti una sensazione di stasi controllata, celante la più violenta delle crisi, che il pubblico ultimamente ha già incontrato in Il collezionista di carte e in Il potere del cane. La fuga, peraltro legata ad un’ambientazione speculare a quella del film di Franco, compare già in The lost daughter, e l’iconografia dell’uomo di città inevitabilmente fuori luogo in questi scenari riecheggia il Joaquin Phoenix di alcune scene del recente C’mon c’mon. Nondimeno, al di là della narrazione, il film si colloca sulla scia dell’altrettanto riuscito Bergman island in quella che è la riproposizione di un interprete del calibro di Tim Roth, che per quanto mai lontano dal grande schermo pare vivere un rinnovato interesse per progetti singolari che giovano particolarmente delle sue performance.
Ciononostante, la pellicola riesce a costituire molto più di una mera collezione fine a se stessa di tendenze narrative e non, e se questo accade è in particolar modo grazie alla sua peculiarissima scrittura. Nella sua interezza infatti Sundown poggia su una sceneggiatura del tutto singolare, atipica quando non contro-intuitiva. Nei suoi tratti di base, infatti, la serie di eventi che porterebbero al profilarsi di una linea narrativa è sostituita da una dilagante e totalizzante stasi, che riflette le predisposizioni caratteriali del protagonista allargandosi sino ad impregnare per osmosi anche la trama e l’atmosfera del film stesso. Alla frenesia delle tappe narrative (che pure si manifestano, ma sembrano non tangere in alcun modo il personaggio principale) si sostituisce una stagnante paralisi, il racconto di un’accidia in cui la noia non è debole sottofondo ma condizione esistenziale a tutto tondo.
Il tedio si erge così a caratterizzazione intrinseca della trama, e il dolce far niente diventa – contraddizione in termini – un fare qualcosa, elevandosi a focus narrativo paradossalmente solido. La trama procede dunque, più che per singoli accadimenti, grazie al (e in funzione del) montaggio, disciplina in cui il regista è indubbiamente maestro, come ha dimostrato negli anni lavorando all’editing di quasi ogni pellicola tra quelle che costituiscono il suo corpus operistico. Mantenendosi deliberatamente lontano da sperimentalismi connotativi, metaforici o intellettuali (nell’accezione delle trovate di ejzentejniana natura), il montaggio, con il suo scorrere di scene di vita vissuta, prima al resort e poi nella Acapulco più spontanea, pone l’accento su un inesorabile e gravosissimo presente in cui si colloca l’agire (o meglio, in questo caso, il non agire) del protagonista.
La scrittura di Sundown non manca, in un certo qual modo, di disseminare nella storia riferimenti a una sottotrama di denuncia sociale, ma non è quello il focus su cui sembra ricadere l’urgenza autoriale. Per quanto importante, infatti, quest’ultima passa in secondo piano, lasciando spazio a sufficienza per l’emergere del vero centro focale del film, la cristallizzazione di una distruzione esistenziale, nella persona di Neil, ma soprattutto familiare, nel suo rapporto con la sorella e i nipoti. Distruzione familiare che, tuttavia, in linea con il tono complessivo del lungometraggio, non sfocia in drammatizzazioni o patetismi (e, quando rischia di farlo, non è mai per mano del personaggio di Roth ma sistematicamente per bocca di quello di Gainsbourg).
In termini strettamente manualistici la piega narrativa di Sundown è fortemente contro-intuitiva. In quello che il percorso canonico del protagonista, convenzionalmente noto come il viaggio dell’Eroe – il riferimento è all’imprescindibile testo di Vogler -, il rifiuto da parte di Neil alla chiamata che porterebbe all’azione si espande, totalizzante, sino a divenire esso stesso il percorso del protagonista. L’azione drammaturgicamente intesa ci sarebbe, in concomitanza delle figure di Alice e dei suoi due figli, ma il personaggio di Neil sceglie di evitarla, sottraendosi al più canonico sviluppo e profilando per sé, sia volutamente che suo malgrado, un percorso altrettanto valido per quanto atipico. La storia si fa così anti-storia e l’eroe, pigro, statico e in definitiva eccezionalmente anomalo, quasi anti-eroe, in ragione della mancanza di quei valori che dovrebbero accomunarlo per empatia con il suo pubblico.
D’altronde, che la scrittura del film sia delle più studiate emerge anche dai personaggi stessi. È ben evidente, nel caso di Alice ma soprattutto in quello di Neil, che lo spettatore si trovi di fronte ad attanti estremamente stratificati e ben scritti. Presentandoli sullo schermo come iperbolicamente ermetici di loro emerge volutamente ben poco, ma certo non per mancanza di fantasia autoriale. Numerosissimi sono infatti gli indizi, i dettagli che suggeriscono una profondità nei caratteri umani che Sundown porta sullo schermo. I suoi sono personaggi enormemente complessi, ma il regista e autore li conosce alla perfezione; potrebbe esplorarne gli angoli bui, i segreti, il trascorso e le abitudini, ma sceglie in ragione della singolare trama di mostrare solo quanto è strettamente necessario.
In quella che si pone come una struttura binaria scissa in due capitoli (ognuno dei quali ingegnosamente introdotto da un decesso), del personaggio di Neil emerge indubbiamente di più nella seconda parte del film. Questo tuttavia non vuole significare che il personaggio si apra al suo pubblico. Anche in questa fase, infatti, permane la deliberatamente tediosa stasi della prima parte, e il personaggio si rivela ostinato nel suo tacere il proprio sé, ma il profilarsi degli eventi e il contesto in cui agisce aprono qualche spiraglio all’intuizione spettatoriale. Come il protagonista appare fuori luogo nel contesto del resort, circondato dalla famiglia, altrettanto esistenzialmente idiosincratico risulta in quello della vita di paese messicana. Mai con lo scorrere del minutaggio di Sundown vengono fornite al pubblico certezze sul suo protagonista, ma solo suggerimenti, bozze di una caratterizzazione umana in realtà sapientemente approfondita ma mai mostrata apertamente.
D’altronde, trattandosi di una pellicola realizzata da un professionista del montaggio, già la scena in apertura del film (posizionamento non casuale) suggerisce le derive del film stesso. Al primo minuto lo spettatore è accolto infatti da una desolante inquadratura di pesci boccheggianti, morenti, seguita da un primo piano in controcampo dell’impassibile Neil. Oltre a costituire una stretta di mano esemplare tra pubblico e protagonista, di cui emergono immediatamente la mancata portata emotiva e la conseguente imperturbabilità, l’inquadratura si rivela programmatica rispetto al tono dell’intero film, in tutta la sua cruda onestà. Quella dei pesci è una stasi sofferta, l’attesa di una fine ultima e definitiva (di un tramonto, giustappunto), la medesima condizione in cui si trova il protagonista nel corso del lungometraggio. Sundown si rivela così il racconto, magistralmente scritto e ben interpretato, di un’attesa forse inconsapevole, di un’angosciosa immobilità che cela la più disperata delle esistenze umane.