Presentato a Venezia e distribuito da Netflix, Storia di un matrimonio (in originale Marriage Story) è l’ultimo film del sofisticato regista indie newyorchese Noah Baumbach. Baumbach negli anni ha realizzato film di portata molto diversa tra di loro, in cui emerge chiara però la sua spiccata sensibilità per le sfaccettature e le incongruenze dell’esperienza umana. Al contrario dei suoi film precedenti, Storia di un matrimonio si presenta però il suo film più intenso e doloroso, nonostante qualche punta di sgrassante comicità e pura dolcezza.
Charlie e Nicole (interpretati da due bravissimi Adam Driver e Scarlett Johansson, entrambi in odore di Oscar) sono una coppia nella vita privata quanto in quella lavorativa. Lui regista e lei attrice, lavorano in una compagnia teatrale off-broadway e hanno un figlio insieme. Per tutti è una coppia indistruttibile e la notizia della loro separazione arriva per colleghi e famigliari come uno shock. I due coniugi decidono però, di comune accordo, di tenerla amichevole e senza ricorrere ad avvocati. Quest’ultima circostanza cambia quando Nicole ritorna a Los Angeles, sua città natale, per recitare nel ruolo da protagonista in una nuova serie televisiva. Qui, Nicole si fa convincere dall’avvocato Nora (Laura Dern) a procedere con un iter ufficiale come risarcimento morale dei fallimenti del matrimonio. Inizia così tra i due genitori una battaglia per l’affidamento del bambino, che si trasforma nello scoperchiamento del vaso di Pandora della loro relazione.
Storia di un matrimonio inizia in classico stile Baumbach, che per prima cosa ci regala i primi dieci minuti più belli e più dolci della storia del cinema. Poi, con una sceneggiatura leggera come una farfalla, Baumbach riesce a illuminare la narrazione con personaggi di contorno deliziosi, dalla sorella, attrice nervosa che non riesce a sostenere i provini, a Nora e Bert, il secondo avvocato di Charlie. A un certo punto però il film prende una piega più nettamente drammatica. Tutta la parte centrale è infatti occupata in modo massiccio dalle diatribe tra avvocati, dolorose e faticose per i protagonisti, quanto per lo spettatore. Iniziato come una commedia agrodolce, si trasforma quindi in un film drammatico a tutto tondo, fatto di lunghi monologhi, momenti climatici di catarsi e splendidi piani sequenza che indugiano sul lavoro impeccabile degli attori protagonisti. Uno stile più simile al classico Kramer vs Kramer quindi, piuttosto che a Il Calamaro e la Balena dello stesso Baumbach, entrambi a tema divorzio.
Un cambio quindi piuttosto radicale dallo stile frammentato e svolazzante che caratterizza alcuni dei lavori più famosi di Baumbach, tra cui il più giustamente riconosciuto Frances Ha, troncato fin nel titolo. Infatti Baumbach, sempre anche sceneggiatore, ha la preziosa capacità di cogliere il lato volatile e multiforme della vita attraverso un montaggio tronco e la pluralità dei punti di vista, come si vede molto bene nel più recente The Meyerowitz Stories, in cui la scena viene effettivamente interrotta nel mezzo di una frase. Qui invece tenta un approccio completamente diverso, come si può notare fin dalla singolarità del titolo (Marriage Story) contrapposto per esempio alla pluralità espressa nella stessa parola dal film precedente. In Storia di un matrimonio infatti si butta a capofitto nella storia, in una fissità e approfondimento, mimati dalla macchina da presa, che sono tartassanti e non lasciano scampo allo spettatore.
Infatti, attraverso le lenti di questa doppia faccia della relazione, Baumbach vuole esplorare tutte le emozioni che si attraversano durante un amore e durante la sua fine. Essendo un film di coppia, la nostra empatia passa prima da Nicole, che sente di aver sacrificato la sua individualità a favore del marito, e poi a Charlie, che brancola nel buio su cosa ha sbagliato. La cosa interessante però è che per tutta la parte giudiziaria noi spettatori siamo empatici con entrambi Nicole e Charlie, le vere vittime di un sistema così meschino che li porta a diventare carnefici.
Inoltre, l’opposizione tra Charlie e Nicole è segnalata durante il film dal filo rosso dell’opposizione geografica. New York è Charlie: intellettuale, fitta di stimoli e di persone, un posto dove Charlie può fare un teatro impegnato e dove “si può camminare”. Los Angeles è invece Nicole: appariscente e di largo respiro, è una città improntata sull’intrattenimento commerciale e che “ha tanto spazio”. E infine, le due città sono ai lati opposti degli Stati Uniti: se il nucleo famigliare quindi si rompe a NY, città di lui, è naturale che si possa ricomporre solo a L.A., città di lei, ovvero quando Charlie accetterà di fare quel compromesso che Nicole ha sempre sentito mancante nella loro relazione. Significativo quindi che, poco prima che questo compromesso avvenga, un personaggio dica a Charlie che “anche a Los Angeles si può camminare”.
In sostanza un film cesellato e intenso, in cui si può riconoscere un coinvolgimento autobiografico del regista, la cui storia con l’ex moglie e attrice Jennifer Jason-Leigh ha molti tratti in comune con la coppia rappresentata. Ciononostante, purtroppo, emerge poco Baumbach. Il suo tocco, allo stesso tempo caustico e frizzante, drammatico ma non enfatico, serio ma non serioso, caratterizza pienamente solo la prima metà, lasciando alla seconda un impianto solido ma classico, che sicuramente gli porterà trazione (comunque meritata) ai prossimi Oscar.
Menzione d’obbligo per gli attori caratteristi, tra cui spicca Laura Dern in grandissimo spolvero, ma anche Alan Alda, in un ruolo adorabilmente dimesso, e Ray Liotta, invecchiato e sopra le righe.