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Sto Pensando Di Finirla Qui

A Charlie Kaufman piacciono le scatole cinesi. Dai burattini di altrettanti burattini dello script originale di Essere John Malkovich, alle infinite amnesie della versione originale di Eternal Sunshine of the Spotless Mind (riconoscibili nel triplice rewind finale del film), al teatro nel teatro nel teatro di Synecdoche New York, Charlie Kaufman adora i giochi di specchi portati al parossismo. Quindi non sorprende che anche Sto pensando di finirla qui (in originale I’m thinking of ending things) sia un eterno e indistricabile rimpiattino sul tema del tempo e dell’identità.

sto pensando di finirla qui

Tratto dall’omonimo libro scritto da Iain Reid, descritto come un thriller psicologico a metà con l’horror, Sto pensando di finirla qui segue una giovane donna (Jessie Buckley) che va a conoscere i genitori (interpretati da Toni Collette e David Thewils) del fidanzato Jake (Jesse Plemons) ma sia in viaggio che nella casa d’infanzia del compagno, il tempo e le situazioni cominciano a farsi confusi.

Fin dalla prima immagine viene stabilita la natura interiore del film. Viene inquadrata una casa vuota, che è quella in cui si svolgerà l’azione centrale del film, con in sottofondo le parole della protagonista, i cui pensieri fanno da commentario e da contrappunto agli strani eventi del film. Le prime parole che pronuncia sono quelle del titolo: I’m thinking of ending things. Il titolo narrativamente si riferisce all’atto pratico di lasciare il compagno, che la protagonista conosce da circa poco più di un mese. Nel corso della narrazione però il titolo prenderà una virata più esistenziale, andando non solo a sottintendere una morte della protagonista, ma addirittura una mancata esistenza fin dall’inizio.

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Il titolo originale contiene una caratteristica persa nella traduzione italiana, che non conserva la pluralità data dal things finale. Come Synecdoche New York, l’intenzione di Kaufman è quella di realizzare un’opera chimerica, quasi enciclopedica, che contenga e analizzi tutta l’esperienza umana. Ma queste non sono le sole similitudini con il primo debutto da regista dello sceneggiatore. Sto pensando di finirla qui potrebbe essere visto quasi come un seguito spirituale di Synecdoche New York, sia perché sono gli unici film scritti e diretti (da solo, vista la collaborazione con l’animatore Duke Johnson per Anomalisa) da Charlie Kaufman, sia da un punto di vista visivo e tonale. Visivamente, i protagonisti sembrano una copia del rimpianto Philip Seymour Hoffman e della coprotagonista Samantha Morton, fino ad arrivare ai colori desaturati, che virano dal marrone al bianco e danno l’idea di vuoto e usurato. Il tono poi è nichilista con solo una punta di inafferrabile speranza poetica finale. Con questi due film, Kaufman riesce a raccontare il vuoto e la morte in quanto esperienza di dissipazione psichica e fisica.

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L’altro significato del titolo è appunto quello esistenziale. La scena finale, con la dissolvenza al blu che apre brevemente su un paesaggio imbiancato, vuoto e silenzioso, è complementare a quella di apertura, che apre appunto sulla casa vuota. Le due scene sono però essenzialmente diverse, intanto perché, il film inizia con una voce e chiude nel silenzio. E poi inizia con una voce femminile e chiude invece con una maschile. Nel corso del film infatti, la protagonista arriva a dubitare la sua stessa esistenza e la sua identità si mescola con quella di Jake, che a sua volta si mescola con quella del vecchio bidello, che riguarda indietro la sua vita senza amore, con nostalgia. Allo stesso tempo, la giovane donna è forse un prodotto della mente di uno degli altri due uomini, e quello che sia veramente reale rimane inconoscibile.

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Ritornano quindi i temi cari a Kaufman: l’identità, la memoria, e la vita nell’arte. Tra questi, sviluppati estensivamente in tutta la sua filmografia, se ne trova uno nuovo, ovvero quello del tempo. La protagonista a un certo punto si chiede se il tempo sia davvero una linea fissa sopra cui noi ci muoviamo oppure se sia il contrario, ovvero che noi siamo un punto fisso e il tempo ci attraversa. Questo originale approccio al tempo è quello che plasma la parte centrale del film, quella dell’incontro con i genitori di Jake. I genitori sembrano allo stesso tempo di mezza età, moribondi, e più giovani. Anche gli altri temi (dell’identità, della memoria, della vita nell’arte) però si caratterizzano dal medesimo comune denominatore: sono tutti espressi nella loro pluralità e irrequietezza. La vita, intesa come esperienza umana, è instabile e cangiante. Un punto fisso c’è, ma non sono le persone.

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In mezzo alla lunga e chimerica narrazione principale, Kaufman immette piccole scene di narrazione lineare che spaziano su tutti i piani dell’espressione artistica: la poesia, la pittura, il cinema, la danza, il musical, il teatro. Sono piccoli momenti di pausa dall’ambivalenza esistenziale dell’intera opera, che pian piano però prendono sempre di più il sopravvento sulla “vera” storia e diventano loro il fulcro del film. È l’arte la vera protagonista di un film che inizia e finisce senza personaggi fisici, di cui la giovane donna inizia come voce narrante e Jake finisce in quanto attore, del film ma anche dell’opera teatrale in cui sta recitando, che non è altro che la sua vita, che forse a sua volta esiste solo nell’immaginazione dell’anziano bidello. Parallelamente a Synecdoche New York, che riflette apertamente sulla linea sempre più sbiadita tra arte e vita, Sto pensando di finirla qui appare come una dedica amorosa all’arte come unico punto fisso nell’angoscia di un’esistenza dai troppi lati oscuri.

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Marianna Cortese
Marianna Cortese
Attualmente laureanda in Lettere Moderne, ho sempre avuto un appetito eclettico nei confronti del cinema, fin da quando da bambina divoravo il Dizionario del Mereghetti. Da allora ho voluto combinare cinema e scrittura nei modi più diversi e ho trangugiato di tutto: da Kim Ki-Duk a Noah Baumbach, da Pedro Almodovar a Alberto Lattuada. E non sono ancora sazia.

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