STILLWATER – TRAMA
Bill (Matt Damon), operaio trivellatore di pozzi petroliferi, disoccupato, è in viaggio da Stillwater in Oklahoma, direzione Marsiglia per rivedere Allison (Abigail Breslin), la figlia detenuta in carcere da ormai cinque anni, condannata ad altri quattro per l’omicidio della sua ragazza e coinquilina araba Lina.
Da sempre convinto dell’innocenza della giovane, viene a sapere della possibile esistenza di una nuova pista, un diverso colpevole per il delitto per cui sta pagando ingiustamente la sua bambina e decide di restare in Francia indagando in prima persona: l’obiettivo è riaprire il processo, ristabilire la verità e riportare Allison, finalmente, a casa.
In questo modo l’uomo tenta di recuperare un rapporto con la figlia ammalatosi nel tempo, già prima del delitto, a causa di un passato difficile in cui si intrecciano il suicidio della moglie, guai con l’alcool, arresti, lavoro altalenante, assenze ingiustificate ed una nonna ammalata ma tenace che diventa cardine della famiglia.
Nonostante la forte volontà che lo anima, Bill, non ha di fronte a sé una semplice impresa: non parla una parola di francese, non empatizza con gli stranieri e loro non empatizzano con lui anzi lo vedono per ciò che appare un americano da combattimento, il fac-simile di un elettore trumpiano medio, tutto patria, armi e preghiere, spalle grosse, cappellino da baseball, tatuaggio vistoso, spartano e sbrigativo.
E’ un individuo che non ispira simpatia né confidenza; legalmente non trova l’appoggio del precedente avvocato che aveva seguito il caso, non conosce il territorio ed ignora l’omertà endogena di certi quartieri multietnici in cui dovrebbe indagare, non può permettersi investigatori privati e deve trovarsi un lavoro per sopravvivere nel tempo che gli servirà di restare.
L’incontro fortuito con la piccola Maya, nove anni e con sua madre Virginie (Camille Cottin), attrice di teatro idealista e generosa, sono per lui un’ancora preziosa: l’uomo inizia ad integrarsi, a memorizzare la lingua, a riprendere il filo della propria vita e a ricostruirla innamorandosi di Virginie, dando forma man mano ad una quotidianità naturale ed apparentemente serena: fatalmente, però, la marzialità ineluttabile della sua intima missione, ossia, restituire alla libertà la figlia imprigionata, lo spinge a mettere in gioco di nuovo tutto, in primo luogo la neonata felicità acquisita.
STILLWATER – ISPIRAZIONE
Dal fuori concorso del Festival di Cannes 2021, all’uscita settembrina nelle nostre sale, Stillwater è l’ultima fatica di Tom McCarthy, regista di coscienza e rigore, premiato per il suo Spotlight, qui alle prese con una storia solida e ben dispiegata che si ispira, nelle note ufficiali, alle vicende dell’omicidio di Meredith Kercher avvenuto a Perugia nel 2007. La più famosa imputata di allora fu l’ormai celebre Amanda Knox, definitivamente assolta dopo un lungo e paparazzato iter legale che l’ha a lungo dipinta non certo bene agli occhi dell’opinione pubblica nazionale, mentre nello sguardo estero (americano) resisteva come santa martire.
L’ex studentessa perugina si è scagliata contro Stillwater defindendolo un’operazione che sfrutta il proprio nome e la propria immagine a fini di lucro, ed alle sue recriminazioni si è preferito il silenzio e la dicitura, relativamente salvifica, “liberamente ispirato”.
STILLWATER – RECENSIONE
Ma a ben vedere, oltre alla rielaborazione delle vicende penali originarie, Stillwater nel complesso sposta, frammenta e contamina la propria identità di film, che si immagina come giallo-thriller-poliziesco, per diventare poi dramma familiare e psicologico, con punte di mèlo, concentrandosi sulla riabilitazione di una figura paterna fragile, eroe macchiato e respingente, che riscopre la propria forza di volontà, la profondità dei sentimenti che lo animano ed una complessità del reale molto più carica di quello che afferriamo.
Bill è un padre che ha sbagliato e deve recuperare, lo fa sbagliando grossolanamente, lo fa sprecando tempo, lo fa impiegando tempo, lo fa restituendoci la sagoma della tipologia di americano che trapianta il suo modo di pensare all’estero inflessibilmente, e ne resta scottato in tutto, anche se riesce nel classico riscatto pagando pegno, come ogni buon eroe americano.
Il sapore della sua vittoria è però amaro, impregnato di realtà, tristemente consapevole del dolore della verità, una coscienza pesante, un errore paradossale forse, una maturità inaspettata che piomba su luoghi e persone da cui si credeva di provenire e di cui invece si sa o si è capito poco o nulla. La rivelazione arriva “brutale come la vita” per citare le parole che gli dice Allison, sospendendo il sorriso di Bill e l’esultanza per la fine di un incubo in gola: così un’odissea che si pensava avesse uno scopo epico, non la ha; o meglio cambia scopo. Serve a far germogliare un animo paterno in chi credeva di non esserne più capace, indurito ed alienato come uno dei pozzi di petrolio di Stillwater.
La sceneggiatura carica gradualmente il tiro, ma è ampia e soddisfa in modo classico, non banale né auto-assolvente: la vicenda giudiziaria che tanto prurito ha scatenato è in realtà solo il grimaldello assodato con cui attivare il viaggio di un padre alla riconquista di sé e della figlia perduta. Indizi, incomprensioni, conflitti, rifiuti, pericoli, sono gli ostacoli necessari che Bill reinventa e cavalca per tornare vincitore sul proprio destino.
Stillwater è un film fatto di incontri non scontati tra culture differenti e belle relazioni umane, in cui ogni faccia entra in contatto o schiva veramente l’altra, si prende i tempi necessari per far maturare coscienze dentro e fuori lo schermo: parlanti sono i silenzi che uniscono padre e figlia, specie quelli durante il permesso premio della ragazza, significativo è il rapporto con l’ambiente che non si conosce, palpabile il soffocamento nel carcere, meraviglioso il mare incontaminato della costa Azzurra, calda l’accoglienza improvvisa di un piccolo condominio nella Parigi a portata d’uomo.
Habitat totalmente diverso dalle case prefabbricate in legno che si affastellano a singhiozzo nelle praterie anonime dell’Oklahoma, tra capanni abbandonati e legname senza proprietario. Due panorami completamente antipodici che aiutano, suggeriscono o predispongono certe visioni del mondo, descrivendo pistoleri e garantisti divisi da un oceano.
Bill è l’uomo che prega sempre prima di mangiare, che non è mai entrato in un teatro, che possiede due pistole, che preferisce trattare con o passare da razzista piuttosto che deviare dal proprio obiettivo; Virginie è l’accoglienza ed il rispetto, la lealtà e l’artisticità, una leggerezza spontanea e vitale che l’uomo pensava non gli appartenesse più. Insieme potrebbero e sarebbero la felicità. Ma il pegno va pagato, sennò non l’evoluzione sfuma.
STILLWATER – CAST
Stillwater vanta un cast validamente speso: Matt Damon regala la sua fisicità militare e dura ad un personaggio che si fa scudo con un sissignore/a per non cadere nel vortice dei suoi fortissimi sentimenti, lasciandosi incrinare solo dall’innocenza dei più piccoli.
Camille Cottin, storicamente brava praticamente in tutto ciò che fa, ha la dolcezza, la classe e la luminosità necessarie per rendere credibile la sua unione con Damon, improbabile su carta, ma conquistata sullo schermo centimetro per centimetro. Plauso anche ad Abigail Breslin, celebre piccola interprete di Little Miss Sunshine, cresciuta bene, capace di aperture significative, originali, tecnicamente non facili e ben dominate.
Stillwater non lascia eredità morali visibili, né grancasse sensazionalistiche: viaggia lento ed arriva sospeso, irrisolto, come i grandi dubbi sulla vita e sull’anima delle persone, ma insegna da una parte ad osservare ed ascoltare a fondo, dall’altra a non innamorarsi di ciò che a fondo abbiamo osservato ed ascoltato.