Non c’è una vera colonna sonora in Roma di Alfonso Cuarón. La colonna sonora in questo film, è fatta dalle voci delle strade di Città del Messico, dalle urla dei bambini nella casa dei protagonisti, dagli spari durante gli scontri studenteschi. Perfino i silenzi sono parte della colonna sonora. Sono i suoni che Alfonso Cuarón ha pescato dalla sua memoria, tra i ricordi della sua infanzia vissuta a Città del Messico, così come dalla sua memoria sono pescati le situazioni e alcuni personaggi raccontati in questo film.
Quest’opera, uscita nel 2018 su Netflix, è infatti il film più personale del regista messicano, regista di film quali I figli degli uomini (2006), nonché già premio Oscar per Gravity (2013). Oltre ad averlo diretto, Cuarón ha firmato la sceneggiatura, il montaggio e la fotografia. È un film che il regista sembra aver realizzato quasi più per se stesso che per il grande pubblico, è un viaggio nel suo passato e nei momenti che ha vissuto (o che crede di aver vissuto). Non è lui, però, il protagonista di quanto viene narrato. I suoi ricordi sono filtrati attraverso gli occhi di Cleo, domestica a servizio di una famiglia alto borghese nel quartiere Colonia Roma, a Città del Messico. Assistiamo al procedere delle sue giornate, a piccoli momenti di vita quotidiana che la vedono protagonista. La storia è questa, la quotidianità di una giovane donna e i suoi piccoli (o grandi) drammi giornalieri. È dall’apparente banalità del quotidiano che nascono le storie di questo film, che banali non lo sono affatto (c’è in questo un’evidente ispirazione al neorealismo, tanto che le scene ambientate in cucina riportano alla mente Umberto D. di Vittorio De Sica). La storia di Cleo si intreccia inevitabilmente con quella della famiglia per cui lavora, oltre che con lo sfondo storico del Messico del 1970.
Cleo vive tra due mondi, quello dei ricchi e quello dei meno ricchi – questo “doppia vita” viene esplicitata nella scena ambientata a Capodanno, in cui Cleo festeggia prima con i padroni, per poi scendere nel seminterrato e festeggiare con la servitù. Anche il film stesso si trova a metà tra questi due mondi. Cuarón non prende una posizione, non gli interessa schierarsi da una parte o dall’altra. Lui stesso è cresciuto in una famiglia come quella che si vede nel film, anche lui ha avuto una domestica (a cui peraltro è ispirata la Cleo del film), quindi i ricchi sono ritratti come persone a loro volta amorevoli, sono gentili con Cleo, la padrona di casa le viene incontro nel momento del bisogno.
Il mondo in cui vive Cleo non è un mondo opprimente. Lei vi si trova bene, è a suo agio, non sogna di scappare, come invece tenta sempre di fare il cane Borras ogni volte che si apre la porta di casa. A Cleo sta bene vivere in quella casa, con quella famiglia, le va bene stare in cucina e pulire il cortile cosparso dagli escrementi di Borras. Solo sul finale la sua prospettiva cambia, così come la prospettiva della macchina da presa. Cleo sale, si eleva verso l’alto, verso il cielo bianco che incombe lungo tutto il film. Cleo affronta un percorso nel corso del film – più che un percorso di crescita, un percorso di consapevolezza – che raggiunge il suo culmine in quella che è forse una delle scene migliori del film, quella sulla spiaggia, che oltretutto regala una delle immagini più intense ed espressive dell’opera (diventata infatti una delle locandine).
Di grande impatto anche la scena, banalmente, degli scontri studenteschi. Noi ne vediamo solo uno scorcio, attraverso le finestre di un negozio, eppure per la forza registica ed emotiva che mette in atto è uno dei momenti più alti del film, che inoltre dà il via alla serie di sequenze emotivamente più impegnative.
Roma è un film che procede lentamente, si prende i suoi tempi, attraverso lunghe serie di panoramiche e piani sequenza, momenti in cui la tecnica cinematografica di Cuarón raggiunge vette altissime. C’è un lavoro sulla profondità di campo che sembra richiamare direttamente Quarto potere di Welles. La scena in sala parto è l’esempio più immediato di questa ricerca, oltre che una rappresentazione dell’idea di dramma che Roma mette in scena. La tragedia è parte della vita, irrompe nella quotidianità fatta di lavoro, svago, piccole gioie ma anche sacrifici. Ed è proprio il dramma nel quotidiano che muove gli ingranaggi di questa storia, al termine della quale allo spettatore resta il sapore di una grande epopea, in cui la cosa più straordinaria è in realtà un banalissimo bagno nel mare.