The show must go on. Devono aver pensato questo Jerry Bruckheimer e la Walt Disney Company dopo il terzo capitolo della saga sui pirati più fortunata della storia. O meglio, sono arrivati a questa conclusione con molta calma. La produzione di Pirati dei Caraibi – Oltre i confini del mare, infatti, è stata di gran lunga la più travagliata dell’intero franchise, per diversi motivi. In primis le perplessità riguardo al progetto di molti dei protagonisti, su tutti Bloom e Knightley ma anche il regista Gore Verbinski, impegnato nella progettazione del suo western d’animazione Rango.
Dopodiché hanno fortemente rallentato la tabella di marcia anche questioni per così dire politiche, come il cambio al vertice della Walt Disney Pictures. Il presidente Dick Cook, grande amico di Johnny Depp, è stato sostituito e lo stesso interprete di Jack Sparrow, molto strategicamente, ha manifestato un grande dispiacere, ottenendo in cambio per continuare a vestire i panni del personaggio fondamentale della produzione, un cachet stellare da 55 milioni di dollari (circa 37 milioni di euro). A complicare ulteriormente la situazione ci pensò la grande confusione sulla trama, con la sceneggiatura sempre nelle mani di Terry Rossio e Ted Elliott, su cui la Disney voleva imprimere un deciso cambio di rotta, facendo leva sulle molle tradizionali dei suoi precedenti film d’avventura piuttosto che sperimentare com’era avvenuto con il terzo capitolo. Insomma, dal 2007 alla fine del 2009 si susseguirono decine e decine di versioni ufficiose sul progetto e pochissime notizie ufficiali. La produzione arrivò persino ad acquistare i diritti del romanzo Mari stregati di Tim Powers, non tanto per volerne realizzare un adattamento classico, quanto per trarne ispirazione visto che parla di Barbanera e ha un titolo inglese davvero accattivante (On stranger tides).
Il film si presenta per la prima volta poco collegato con il capitolo precedente. È vero, avevamo lasciato Jack Sparrow su una barcaccia mentre osservava le carte nautiche rubate a Barbossa alla ricerca della Fonte della Giovinezza, ma in generale Pirati dei Caraibi – Oltre i confini del mare appare più come una ripartenza che come un sequel. La storia inizia con i marinai spagnoli che si mettono in mare alla ricerca dei calici di Ponce de Leon, leggendario marinaio del passato, necessari per sorseggiare l’acqua della Fonte ed accedere all’immortalità. Dopodiché ritorna in scena anche Jack, stavolta a Londra, dove ha scoperto che un misterioso impostore, che millanta di essere il capitan Jack Sparrow, sta reclutando una ciurma. Dopo aver fatto la conoscenza di Re Giorgio III e aver ritrovato un Barbossa corsaro ai servizi del Regno Unito e senza una gamba (persa insieme alla Perla), il buon filibustiere scopre che la ladra della sua identità non è altri se non Angelica, sua vecchia fiamma e figlia di Barbanera. La donna inganna Jack e lo porta a bordo della famigerata Queen Anne’s Revenge (la nave del terribile pirata) con l’obbiettivo di servirsene per essere condotti alla leggendaria pozza miracolosa. S’innesca così una gara al più veloce tra i cattolicissimi spagnoli, desiderosi di trovare la Fonte pagana per distruggerla, gli inglesi e i pirati di Barbanera, già morto una volta e vicino ad una seconda dipartita. La missione però prevede una tappa intermedia a White Cap Bay, la baia delle sirene. Il rito della fonte prevede infatti anche l’aggiunta nel calice di una lacrima di sirena. Le varie avventure segnano l’arrivo di nuovi personaggi (Serena la sirena, il reverendo Philip, Barbanera ed Angelica), nuovi mostri (l’equipaggio zombieficato di Barbanera) ma anche il ritorno delle solite stravaganze di Jack.
Un cambio di rotta deciso, quindi, ma il più possibile oculato, almeno dal punto di vista del cast. Si è mantenuto un minimo di zoccolo duro dei primi tre film (Jack, Barbossa, l’immancabile Gibbs) e i nuovi arrivati sono stati selezionati con estrema cautela, cercando di non far rimpiangere Orlando Bloom e Keira Knightley. E così per il ruolo di Angelica, un po’ donna passionale un po’ spietata primo ufficiale di un pirata feroce, è stata ingaggiata Penelope Cruz, fresca di Oscar per il suo ruolo in Vicky Cristina Barcelona di Woody Allen e in dolce attesa durante le riprese (sostituita nelle scene d’azione dalla sorella Monica). Il ruolo di Edward “Barbanera” Teach è invece finito nelle mani di Ian McShane, storico volto del cinema e della televisione britannica, e quindi di per sé una garanzia di successo. Inoltre si è provveduto ad introdurre una nuova spalla per Jack (il personaggio di Scrum interpretato da Stephen Graham) e due nuovi amanti giovani (Sam Claflin nel ruolo del religioso Philip, unico protettore della sirena Serena, portata sullo schermo dalla modella franco-spagnola Astrid Bergès-Frisbey).
Anche dietro alla macchina da presa si è dovuto cambiare. Da subito Gore Verbinski si era dichiarato poco propenso a portare al cinema una storia di livello inferiore alle precedenti, e la produzione ha di conseguenza cominciato a guardarsi attorno. L’obbiettivo era mettere sotto contratto per Pirati dei Caribi – Oltre i confini del mare un regista che potesse ridiscutere il format del franchise in una chiave più epico-fantastica. Il primo nome di livello fatto è stato quello di Tim Burton, senza però che la produzione riuscisse mai anche solo ad avvicinarsi al suo ingaggio. Si è ripiegato, dunque su Rob Marshall, con la speranza che potesse portare all’interno della saga una nuova impronta. La scelta, con il senno del poi, non fu la più azzeccata: Marshall non aveva mai lavorato ad un film mainstream e i suoi lavori migliori li aveva realizzati nel genere musicale (Chicago, Nine). L’idea di affidare ad un regista del genere il rilancio di un marchio d’avventura per famiglie è stata quantomeno azzardata. E il risultato finale non è stato minimamente all’altezza del lavoro del suo predecessore.
Se i risultati al botteghino sono stati confortanti (anche a fronte di una radicale riduzione del budget di produzione, sceso a 218 milioni di dollari), facendo di Pirati dei Caraibi – Oltre i confini del mare il secondo film della saga per dollari incassati globalmente (superando di poco il miliardo), non altrettanto si può dire per quanto riguarda la scrittura e lo sviluppo dei personaggi, per certi aspetti letteralmente rivoluzionati in questo capitolo. In primo luogo Jack Sparrow, ormai leader indiscusso del franchise, rimasto orfano delle sue efficacissime spalle coprotagoniste. Il personaggio di Johnny Depp appare ben lontano dagli standard di antieroe amabile che avevamo imparato a conoscere. La prima cosa che salta subito agli occhi è l’eccessiva semplificazione che i due sceneggiatori (che fino a questo momento non avevano sbagliato praticamente nulla) hanno attuato nei suoi confronti. Di fronte alla confusione generale circa la trama e la direzione da intraprendere, hanno preferito far leva sui tic e sugli aspetti stravaganti del carattere del pirata dimenticandosi completamente dei suoi pregi, che, alla lunga, venivano sempre a galla nei film precedenti. Di fatto hanno trasformato Jack in un comico, che non riesce del tutto a reggere il peso di protagonista indiscusso del film. La scelta avrebbe potuto avere un senso solo affiancandogli un personaggio che ricoprisse il ruolo di eroe assoluto della vicenda. L’impressione è che Rossio ed Elliott abbiano provato a far vestire quei panni a Philip, per poi, in caso di successo, farne il nuovo Will Turner anche nei film successivi. Tuttavia questo esperimento si è rivelato un vero fiasco e al film manca un leader in cui riconoscersi, nei pregi e nei difetti.
Esattamente come manca una figura carismatica che svolga il ruolo di protagonista del film, in Pirati dei Caraibi – Oltre i confini del mare si è presentata anche un’assoluta carenza per quanto riguarda l’antagonista. Se nei capitoli precedenti, infatti, i rivali di Jack Sparrow erano stati come minimo suoi degni avversari, il più delle volte addirittura spaventosi e crudeli, non si può dire la stessa cosa per il villain di questo capitolo. E dire che il personaggio aveva tutte le caratteristiche per rivaleggiare degnamente con i suoi malvagi predecessori: stiamo parlando di Barbanera, probabilmente il pirata più crudele mai esistito e quello che ha dato origine al maggior numero di leggende macabre sul suo conto. Il modo di interpretarlo di Ian McShane, che lo rende una sorta di bucaniere dandy, sempre molto calmo e contenuto, non rende minimamente giustizia ad una figura tanto interessante. Stupisce come gli stessi sceneggiatori, dopo aver creato ottimi personaggi come Davy Jones, non siano riusciti a sfruttare adeguatamente il mito Barbanera.
Alla fine il personaggio tra i nuovi che funziona meglio è indubbiamente quello di Angelica, il quale però di fatto esiste in funzione di Jack e di Barbanera, e per tanto non riesce a emergere del tutto come singolo. Per il resto tra le novità funziona poco o nulla. Serena e Philip danno vita ad una sorta di intreccio melodrammatico assolutamente superfluo e completamente fuori contesto in un film come questo. Scrum strappa una risata in diverse occasioni, tanto da essere l’unico che verrà confermato nel capitolo successivo, ma di fatto annulla un personaggio storico come mastro Gibbs, che avrebbe potuto benissimo svolgere il suo ruolo. L’unica scelta davvero azzeccata è quella di porre Barbossa alle dipendenze di Re Giorgio III d’Inghilterra, facendo capire una volta di più quanto sia odiosamente opportunista l’ex capitano della Perla Nera, in grado di sposare qualsiasi causa pur di rimanere in mare e cercare nuove opportunità di riscatto (chiaramente come pirata e non come corsaro).
In conclusione, Pirati dei Caraibi – Oltre i confini del mare ha certamente soddisfatto la produzione da un punto di vista strettamente commerciale (anche considerata la complicatissima genesi), ma non è stato per niente apprezzato dai fan storici della saga. Tutti erano consapevoli che fossero necessari cambiamenti radicali, ma nessuno si aspettava che tali modifiche avrebbero intaccato il substrato tradizionale che ormai aveva marchiato inconfondibilmente il franchise. Il film manca completamente di quel pathos e di quella continua necessità all’azione che aveva mosso tutti e tre i capitoli precedenti. Fu immediatamente chiaro a tutti che il capitolo successivo avrebbe visto molti più cambiamenti di questo deludentissimo quarto film.