[La prima parte è disponibile qui.]
Dopo aver raccontato le difficoltà delle classi più basse nel periodo del dopoguerra (Accattone e Mamma Roma) ed essersi cimentato nella trasposizione del Vangelo (Il vangelo secondo Matteo), Pier Paolo Pasolini prosegue la sua indagine della tragedia greca, iniziata con Edipo re (1967). Un paio di anni dopo, nel 1969, dirige Medea, con protagonista Maria Callas. Ma il suo interesse per i testi classici non si esaurisce qui.
Pasolini e l’antropologia visuale: Appunti per un’Orestiade africana
Una delle opere forse meno ricordate di Pasolini ma comunque estremamente affascinante è Appunti per un’Orestiade africana, che rappresenta ancora oggi un documento antropologico di grande interesse. Il terzo titolo della trilogia ispirata alla tragedia classica, doveva essere secondo Pasolini una trasposizione dell’Orestiade di Eschilo, ambientata nell’Africa contemporanea.
Secondo Pasolini il testo di Eschilo sintetizzava l’ultimo secolo della storia africana, il brusco passaggio da uno stato selvaggio a uno stato civile. Da qui la volontà di calare l’opera di partenza in un contesto ben lontano da quello narrato da Eschilo.
Il film però non vide mai la luce. Questo documentario rappresenta un taccuino, una raccolta di appunti in preparazione a un film che Pasolini non realizzerà. Si tratta di una pellicola di grande importanza per l’antropologia visuale, dal momento che Pasolini racconta i cambiamenti sociali ed economici che hanno interessato l’Africa, ponendosi come un osservatore in grado di analizzare la situazione filtrandola con la lente della tragedia classica.
Le immagini raccolte da Pasolini in Uganda e Tanzania sono intervallate da interventi di alcuni giovani di origine africana che studiano alla Sapienza di Roma, a cui l’autore chiede di commentare quanto vedono. Senza dubbio si può cogliere un tono paternalistico che impregna tutta l’indagine pasoliniana, ma allo stesso modo si nota la capacità della pellicola di dare una materialità diversa alle immagini dei paesaggi africani tramite l’accostamento all’Orestiade. I territori ripresi da Pasolini si elevano e i luoghi dell’Uganda e della Tanzania lasciano effettivamente il posto ai paesaggi della Grecia antica.
Il Decameron e la Trilogia della Vita
Conclusa, per modo di dire, la sua trilogia sulla tragedia classica, nei primi anni Settanta Pasolini si dedica a una delle sue opere più complesse e ambiziose. Si tratta della Trilogia della Vita, trittico composto da tre trasposizioni di altrettanti testi fondamentali della letteratura: Il Decameron (1971), I racconti Canterbury (1972), Il fiore delle Mille e una notte (1974).
Tramite l’adattamento di queste tre opere Pasolini riflette in maniera critica su tutte quelle problematicità che lui individua nella società consumistica che sta vivendo. Accanto a questa critica, anche una ribellione intellettuale contro il senso di pudore borghese che condannava l’espressione libera della sessualità.
Il Decameron, primo film della trilogia, è emblematico di queste posizioni di Pasolini, che si esprimono tramite precise scelte che tradiscono in maniera importante il testo di Boccaccio. Senza dubbio la modifica principale è quella di spostare l’ambientazione da Firenze a Napoli: Pasolini ritiene che il fiorentino sia una lingua “colpevole”, poiché ha dato origine all’italiano, la lingua di quella società dei consumi che Pasolini disprezza.
Il napoletano, invece, è una lingua autentica, richiama un’arcaicità pura, dove la gioia delle genti deriva ancora da sentimenti semplici, puri. Allo stesso tempo Pasolini mette in scena una sessualità spontanea, talvolta goffa e grottesca, una sessualità che nulla ha a che fare con quella idealizzata e fasulla della società del consumismo, e che allo stesso tempo è la massima fonte di gioia per quelle persone che non hanno altro nella vita. Individui poveri, ma che grazie al loro corpo, sono ricchi, di una ricchezza vivace, che trasforma il sesso, visto con estremo pudore dalle classi borghesi, in un divertimento che esprime piena vitalità.
Anche qui Pasolini si approccia alla materia di partenza con grande realismo, ricorrendo a soluzioni documentaristiche in più occasioni, complice anche la scelta del dialetto napoletano, che dona spontaneità alla maggior parte delle situazioni. Togliendo la cornice della peste, inoltre, Pasolini toglie gran parte del tono drammatico del testo di partenza, facendo del Decameron uno dei suoi film più allegri e spensierati.
Arrivato a questo punto della sua carriera, Pasolini si concede anche un inserimento metacinematografico, che lo vede vestire i panni di Giotto, protagonista di una delle novelle trasposte. L’artista, in questo caso pittore, incapace di trattenere la propria esplosiva ispirazione, viene in automatico affiancato idealmente al regista, creatore di opere che spesso e volentieri sfuggono al controllo autoriale e diventano testi che vivono di vita propria.
Salò e il testamento di Pasolini
Nel 1975 Pasolini firma il suo ultimo film, la sua opera più difficile, ancora oggi un film complesso da vedere e digerire. Per molto tempo si trattò di un vero e proprio film proibito: fu sequestrato dalla censura in svariate occasioni e la fama che lo avvolge fu senz’altro acuita dalla coincidenza tra l’uscita del film e la morte di Pasolini, entrambe avvenute nel novembre del 1975.
Salò o le 120 giornate di Sodoma, che sarebbe dovuto essere il primo capitolo di un’ideale Trilogia della Morte, contrappunto alla trilogia precedente, si ispira a Le 120 giornate di Sodoma del Marchese De Sade, romanzo che racconta terribili e violente perversioni, a cui Pasolini accosta il nome Salò. Va detto che Pasolini non cerca di raccontare il fascismo come si è dato storicamente, bensì l’idea di fascismo, il potere violento, arbitrario e oppressivo, che trasforma la persona in corpo-oggetto da utilizzare liberamente, fino a cancellarne l’identità di individuo.
Il film inizia proprio nel 1944, nella Repubblica Sociale Italiana, dove quattro signori ordinano di rapire un gruppo di ragazzi, per poter disporre di loro liberamente. Se, come si è visto, nella precedente trilogia il sesso era una via di riscatto e liberazione delle classi inferiori, in Salò diventa esercizio di potere. Spogliati di ogni dignità, le vittime di questi signori, che rappresentano i vari poteri di quella che fu la Repubblica Sociale Italiana, vengono sottoposti alle più svariate torture e umiliazioni, che non mancano di impressionare chi guarda.
Lo sguardo degli spettatori diventa colpevole testimone delle terribili violenze che si scatenano sullo schermo. Il realismo quasi documentario con cui Pasolini racconta la vicenda si accompagna ad uno straniamento di brechtiana memoria, data dal contrasto tra il rigore formale, la totale mancanza di caratterizzazione dei personaggi e l’innaturale e selvaggia violenza: un vero e proprio inferno sottolineato anche dal richiamo alla Commedia di Dante, dato dalla divisone del film in quattro gironi.
Salò è l’apice della riflessione politica di Pasolini in forma filmica. Venne proiettato per la prima volta il 22 novembre 1975, a Parigi, venti giorni dopo la morte di Pasolini. A questo film sarebbe dovuto seguire il secondo capitolo della Trilogia della Morte, intitolato Porno-Teo-Kolossal: la pellicola avrebbe avuto per protagonista Eduardo De Filippo nei panni di uno dei Re Magi, in viaggio per raggiungere il neonato Gesù.
Il decesso di Pasolini, su cui ancora oggi aleggia un alone di mistero, impedì la realizzazione del film e mise fine alla carriera di uno degli autori che meglio di altri seppe fotografare la società italiana coeva, cogliendone le idiosincrasie, le contraddizioni e le zone d’ombra.
A Pasolini va dato il merito di aver saputo fare suoi alcuni dei testi fondanti della cultura umanistica, per rimodularli al fine di raccontare, attraverso essi, un mondo che riteneva ingiusto.
E se è vero che è impossibile condensare in un articolo l’intera complessità della sua poetica, è anche vero che è molto difficile inserire Pasolini all’interno di categorie predeterminate. Come si diceva, la sua è un’arte in continuo movimento, aperta. Ecco che quindi suona emblematica la frase finale del Decameron, pronunciata proprio da Pasolini, nei panni di Giotto: “Perché realizzare un’opera quando è così bella sognarla soltanto?”