“Paris, Texas” è un film del 1984 diretto da Wim Wenders. Vincitore della Palma d’oro a Cannes, il massimo riconoscimento del festival. Gi attori protagonisti sono Harry Dean Stanton, Nastassja Kinski e Hunter Carson. La colonna sonora è del musicista Ry Cooder, noto per aver realizzato l’album “Buena Vista Social Club“, assieme a dei musicisti cubani. È uno dei lavori più conosciuti del regista tedesco, scritto in collaborazione con Sam Shepard, attore e drammaturgo statunitense, particolarmente apprezzato dalla critica.
Paris, Texas – La trama
Un uomo, dal mutismo selettivo, cammina da solo nelle zone desertiche tra gli Usa e il Messico. Il caso insospettisce un abitante del posto, che dopo averlo preso in cura, scopre di un numero di telefono nascosto nella giacca, rivelatosi il contatto del fratello. Tornato a casa, dopo un viaggio di due giorni in auto, all’uomo, visibilmente scosso, viene ricordato della presenza di un figlio, avuto da una relazione passata. A prendersi in custodia il bambino sono stati i due zii, che dopo la scomparsa del protagonista, lo hanno cresciuto per quattro anni. Il padre cerca quindi di recuperare il rapporto, stabilendo un nuovo legame.
Paris, Texas – La recensione
Partiamo dal dire che Paris,Texas è un capolavoro immane. Wim Wenders, è un esponente del “Nuovo cinema tedesco“, un movimento cinematografico che vuole rompere con le regole della tradizione e rinnovare il linguaggio, toccando temi autoriali nelle proprie opere filmiche. La crisi finanziaria che negli anni 60 ha toccato l’industria tedesca, ha spinto dei giovani cineasti a mobilitarsi, per fare in modo che i propri film trovassero un pubblico adatto e vasto, alle proprie ambizioni registiche.
Wenders si inserisce perfettamente in quel filone e con la sua visione artistica diventa tra i rappresentanti più importanti del movimento, affianco a nomi quali Werner Herzog e Rainer Werner Fassbinder. I tre artisti in special modo creano un trio pluripremiato nei vari festival di tutto il mondo ed elevano il cinema tedesco a pura forma d’arte, in grado di fare concorrenza agli autori delle altre nazioni.
Il regista realizza quindi il film migliore della sua carriera. A livello tecnico è inattaccabile. Ogni settore, dalla scenografia ai costumi, svolge un lavoro impressionante, raggiungendo la perfezione artistica. Ogni inquadratura si avvale della forza di unione di ciascun reparto, che lavorando congiuntamente riesce a tirare fuori un prodotto davvero prezioso. Qualsiasi fotogramma potrebbe tranquillamente essere estrapolato dal contesto ed essere appeso come foto artistica in una galleria d’arte. Siamo di fronte a una cura dell’estetica, in grado di trasmettere una fascinazione così grande da rimanere ammaliati.
La bellezza dell’immagine è soprattutto merito della fotografia. I colori che emergono, tenui da una parte e accesi dall’altra, con una predominazione verso un contrasto tra il chiaro e lo scuro, fanno da sfondo alla svolgimento della narrazione. La fotografia sembra vivere per conto suo, muovendosi in un piano parallelo. Una fotografia attiva e visibile, che si manifesta in tutto il suo splendore e diventa parte essenziale della storia. Contribuisce ad accentuare le potenti emozioni che coinvolgono i suoi protagonisti. La luce elaborata dal direttore Robby Müller, è unica e invidiabile, da insegnare in una qualsiasi scuola di cinema.
Per quanto riguarda la recitazione, Il talento degli attori sul set è da lasciare a bocca aperta, talmente bravi che contribuiscono a crearsi l’immagine di icone culturali, come nel caso specifico della protagonista femminile Nastassja Kinski. Ci sono delle scene memorabili che andrebbero viste per potersi fare un’idea su cosa lo spettatore stia guardando. Si ricordano quelle all’interno del Peep Show, in cui la tensione si fa altissima. C’è una contrazione di drammaticità epica, posizionata in alcuni frammenti di scambio tra gli interpreti principali, che costituiscono le scene migliori.
Alla base vi è una storia dal grande potenziale drammatico che però non pesa per niente, nel senso che l’autore non carica troppo la visione con l’intensità della scrittura. Il ritmo è infatti notevole, capace di invogliare lo spettatore nel continuare la visione. È presente una caratteristica che accresce maggiormente l’interesse verso il prodotto. Stiamo parlando di una dimensione onirica e surreale su cui la pellicola si poggia per tutto il corso della vicenda. Questa sensazione di irrealtà è allo stesso tempo magnetica e suggestiva.
Dentro un quadro di Edward Hopper
Tutta l’influenza la possiamo riscontrare nella pittura americana di metà novecento, in particolar modo ci stiamo riferendo ai quadri del pittore Edward Hopper. La summa di tutto il suo pensiero è riscontrabile nella sensazione di solitudine che caratterizza i personaggi delle sue opere surrealiste. Wenders attinge pienamente da quel mondo e lo riporta su pellicola, evidenziando una nota corrispondenza con il genio creativo dell’artista statunitense. Un particolare senso di solitudine circoscrive il lavoro del regista tedesco, esattamente come è percepibile e riscontrabile nei mistici quadri di Edward Hopper.
Traspare l’impressione che i protagonisti vivano una dimensione solitaria con la quale fare i conti di volta in volta. La vita urbana della metropoli, pervasa dal caos cittadino, appare eternamente distante dalla mente e dai pensieri di quelle figure. C’è un tentativo evidente di affrontare la questione, e che rappresenta il motore della storia, ovvero la ricerca della madre. I soggetti rappresentati sono simbolicamente orientati verso una pace interiore e un benessere emotivo, che però non riescono a raggiungere, ed è qui che sale tutta la drammaticità, tormentati invece dalle loro angosce perenni, che li allontanano dal resto del mondo, generando un chiaro contrasto con la società intorno a loro.
Si percepisce inoltre una similitudine con i film di David Lynch, anch’essi contraddistinti da un mistero nascosto, che sottolinea l’idea di un’allucinazione onirica, tipica dei sogni. Le posizioni degli oggetti in scenografia e la calma che coinvolge i personaggi nei momenti più salienti, alimentano la credenza di star sognando e di essere vittime inconscie di un delirio mentale. Lo spettatore si sovrappone quindi al suo protagonista e accresce in questa maniera il rapporto tra finzione e realtà. La fusione avvicina il prodotto di Wenders all’espressione Metacinema.