Il rimpianto di un’illusione che, stanco di crogiolarsi nella colpa e nel dovere, si proietta verso nuovi possibili futuri e destini a venire. Questo è il senso di amabile spaesamento vissuto dal protagonista, e con lui dallo spettatore, che domina la scena conclusiva di Norwegian Wood, percorso catartico ma necessario nell’esistenza di un giovane uomo diviso dall’amore per due donne verso le quali è calamitato o dalla responsabilità o dalla dolcezza. Non era certo un’impresa semplice quella di adattare l’omonimo romanzo (conosciuto anche con il titolo alternativo di Tokyo Blues) dello scrittore giapponese Haruki Murakami, autore di culto amatissimo da milioni di lettori e da anni dato per papabile come premio Nobel per la letteratura, che possiede uno stile unico e tagliente nel raccontare vicissitudini di individui così normali e ad alto approccio empatico.
Missione ancor più complessa in quanto il libro alla base è anche uno dei più complessi dal punto di vista psicologico pubblicati dall’autore nipponico, mettente al centro del racconto la tormentata situazione sentimentale del protagonista Toru Watanabe, un timido studente del college che comprende, prima di compiere vent’anni, come la vita regali amare sorprese: il suo migliore amico Kizuki infatti si è tolto la vita senza un apparente motivo, gettando nella più inconsolabile disperazione anche la di lui ragazza Naoko, che frequentava fin dalle elementari. Quando la incontra tempo dopo a Tokyo, dove si è trasferito per l’università, Toru inizia con lei una relazione che da platonica diventa anche fisica, salvo finire proprio sul più bello per le crisi psicologiche di lei, mai ripresasi dal lutto, che si fa ricoverare in un sanatorio sui monti per ritrovare la propria stabilità interiore. Nel frattempo Toru durante il semestre primaverile conosce la tenera Midori, studentessa già fidanzata con la quale scatta una sorta di reciproco colpo di fulmine; sarà solo l’inizio di un imprevedibile menage a trois dopo il quale niente sarà più come prima.
Il regista Tran Anh Hung, francese di adozione ma vietnamita di nascita, aveva conquistato la critica di mezzo mondo negli anni ’90 grazie a due film come Il profumo della papaya verde (1993) e Cyclo (1995), vincitori rispettivamente della Camera d’or al Festival di Cannes e del Leone d’Oro a Venezia, e si dimostra ancora una volta maestro nella gestione dei sentimenti, riuscendo a rendere vivi e palpabili le figure nate su carta con una notevole adesione. Certo in alcuni passaggi si respira una certa “concentrazione” di eventi e alcuni risvolti e figure secondarie non hanno ottenuto lo spazio che forse avrebbero meritato per uno sguardo d’insieme ancor più completo, ma questo viaggio nella varie declinazioni dell’amore regala momenti ad alto tasso emotivo, con sequenze capaci di provocare una sincera commozione, fasi finali in primis. Il tutto all’interno di un’atmosfera sospesa, attendente l’evento clou dell’ultima parte che proietta verso una nuova occasione servita, come nell’opera alla fonte, all’immaginazione dello spettatore. La colonna sonora ossessiva o soave a seconda dei contesti calca la mano su questo approccio passionale e impulsivo, levigando alcune sfumature della fonte ma trovandone altre altrettanto forbite. E così il rumore ambientale, con la natura e gli elementi quali veri e propri comprimari (dal fruscio del vento alla neve che cade negli istanti più acri), restituisce un senso di familiarità con il mondo esterno che osservo il destino dell’umana gente.
Le due figure femminili risultano volti della stessa medaglia e il povero Toru, scaraventato in mezzo a questa ronda di sensazioni fino ad allora mai provate, diventa mezzo d’immedesimazione per il pubblico pronto ad accompagnarlo in decisioni sempre più difficili da prendere e da accettare. L’azzeccata scelta del cast, con Rinko Kikuchi (candidata all’Oscar per Babel e futura star della saga di Pacific Rim) e Kiko Mizuhara nei panni delle due eteree, diverse e complementari, fanciulle e Ken’ichi Matsuyama in quelli dell’innamorato conteso, semplifica il flusso viscerale con genuina e dolente forza. L’erotismo costantemente presente, sia nei dialoghi che negli amplessi (ma senza mai scadere in gratuitismi volgari e fuori luogo) si ammanta di un alone poetico inaspettato e il perenne voice-over del protagonista, sorta di ineluttabile flusso di coscienza, rende più agevole la drammaturgia delle scene madri, alcune di rara potenza. Norwegian Wood avvince e convince, e se la lettura del romanzo rimane un’esperienza dalla dirompenza più unica che rara (e assai consigliata a chiunque) questa trasposizione su grande schermo datata 2010 ne coglie, in forma ovviamente ridotta e meno esaustiva, i punti più salienti attraverso una regia virtuosa che non dimentica di unire la sostanza all’estatica apparenza, in un’esaltazione di assurdo, ossimorico, realismo.
Voto Autore: [usr 3,5]