Nancy (Andrea Riseborough) dice di fare cose che poi non fa; Nancy dice che è andata in vacanza in Corea del Nord e mostra come prove dei fotomontaggi; Nancy dice che ritira e compila correttamente i moduli per il sussidio, ma li tiene stipati nel cruscotto; Nancy tiene un blog in cui dichiara di essere un’altra persona dalla vita problematica e tempestosa e non smette di fingere neanche davanti ai suoi follower in carne ed ossa; Nancy plana tra bollette, solleciti e lavori precari con apatica indifferenza. Nancy assicura la madre che la porterà dal medico ad accertare se il Parkinson che la sta distruggendo sia peggiorato, ma non lo fa e la donna muore.
Non che avesse un gran rapporto con lei, al contrario: il loro sembra un legame con poche dolcezze, molti lamenti ed altrettanti rimproveri, fatto di distanze, delusioni, silenzi e molta ristrettezza economica. Dunque Nancy non è a lutto, a lei e a Paul il suo gatto, sembra non importare quasi nulla della perdita: poi in televisione passa l’annuncio di una famiglia, i Lynch, in cerca della figlia Brooke, a trent’anni dalla sua scomparsa, e viene mostrata la ricostruzione al computer del volto che la ragazza avrebbe oggi. La somiglianza con Nancy è impressionante al punto che la giovane chiama, chiede, offre informazioni e in meno di ventiquattr’ore è davanti alla sua probabile famiglia: lei, Ellen (J. Smith Cameron) insegnante di letteratura, lui (Steve Buscemi) psicologo, in una villetta al nord tra le nevi, vicino ad un lago: altra casa, altro mondo, altra razza.
Nancy è o non è chi dice di essere? Conosce o ignora la verità? E’ o non è la figlia perduta di vista per una banale disattenzione in un centro commerciale? E’ o non è la bambina rapita ed adottata da una donna spiantata, inaffidabile ed irresponsabile? E’ o non è l’ennesima truffatrice che si vuole approfittare della debolezza e della fragilità di una coppia già ferita da una perdita crudele ed inconsolabile?
Assistendo a questo originale lavoro, debutto al lungometraggio per la regista Christina Cloe, presentato al Sundance Film Festival 2018 e premiato qui per la miglior sceneggiatura, viene da chiedersi se il significato, il lascito, la rilevanza di molte storie si trovino nella strutture, nei fatti inanellati, nell’estetica padrona oppure nel viaggio che si è indotti a fare. Come a dire paga più la chiave del mistero o come muti mentre lo risolvi. Una risposta è una risposta, nasce e muore lì; un’esperienza no: mette radici, genera cambiamenti, non si esaurisce.
Qui sta probabilmente la ricchezza di questo film, giocato su una storia chiara, tragica in nuce, ma mai palesemente drammatizzata, condotta volutamente in modo ambiguo, matura al punto da non sbilanciarsi sull’una o l’altra verità, lasciando intatta le tensione su quale sia il destino della protagonista, la sua identità, l’evoluzione della dolorosa vicenda, difficile da credere eppure verosimile, per lei e per tutti i personaggi coinvolti.
Inizia con una fine e termina con un inizio, a metà tra psicodramma e thriller intimo, matura leggera e inquieta al contempo, ponendo il dubbio di cosa accada quando una bugia diventa verità senza dare facili spiegazioni. Gli stessi desideri di Nancy sono sospesi, vorrebbero e non vorrebbero questa seconda chance che la vita irriconoscente le ha improvvisamente concesso, ha paura e al contempo sembra che nulla la tocchi, crede veramente di essere altro da sé, ma ha la valigia pronta per la fuga se qualcosa dovesse andar storto. Attorno un’atmosfera sottile, di silenzi e non detti, un freddo cittadino e montano che la neve assolve solo temporaneamente, mentre la distanza ingombra lo spazio tra le persone, denunciandone la natura prima mentale poi reale.
E’ la percezione della realtà, doppiamente complessa: da una parte l’impossibilità classica di affidarsi ad una verità, univocamente percepita, dall’altra l’incomunicabilità che ci portiamo in eredità dal secolo scorso qui mescolata alla mistificazione che il virtuale adopera sul reale. Il risultato è una conoscenza, sia individuale che reciproca, malata e condizionata: non siamo mai chi vogliamo essere, miriamo ad apparire differenti da come siamo, ci reinventiamo felici altrove, perché non sappiamo più esserlo nel quotidiano e ci perdiamo in questa rincorsa di un altrove senza qualità nè appartenenza fino a convincerci di chi non siamo.
Così la vita è uno scherzo, il lavoro anche, la morte chissà, l’amore è artificiale, i rapporti gusci vuoti, senza documenti d’identità, con il DNA sballato e tutte le emozioni regrediscono ad un livello base, pre-elementare, a volte infantile, quasi animale, come dimostra, ad esempio, l’attaccamento spasmodico e pervicace ad un gatto piuttosto che ad una madre. Quando poi si palesano i buoni, vecchi sentimenti genuini, l’effetto è traumatico: gli occhi commossi di un padre intimamente schiacciato (ottimo Steve Buscemi) o l’abbraccio di una madre in affanno di amore sono cose enormi, ingestibili, sconvolgenti, non controllabili tramite password e tastiera.
Lo riassume bene lo sguardo caparbiamente sbigottito della protagonista, la camaleontica Andrea Riseborough, qui anche produttrice, premiata come miglior attrice al Sitges della Catalogna, dolente, straniata, al margine della società costruttiva, asociale, amleticamente scissa, tra l’essere e il non essere, illustre sconosciuta, ingannatrice di mezza tacca, figlia che non ha mai smesso di essere tale perché di altro sembra non avere bisogno.
Sotto i suoi capelli-parrucca, i suoi iridi di vetro spalancati e l’aspetto da fumetto dark, Nancy sembra affermare che al mondo si è chi si è o chi si sceglie di essere. Anche quando ciò si traduce in enigma e contraddizione, esattamente come il sorriso accennato con cui si chiude la storia.
Voto Autore: [usr 3,5]