Nel 2017 la regista e sceneggiatrice Diandrea Rees porta a compimento il suo secondo lungometraggio, Mudbound (135 minuti circa). La pellicola si iscrive nel contesto del dramma storico, portando sullo schermo la storia di due famiglie americane, una bianca e una nera, agli albori del dopoguerra. Il film trae ispirazione dal romanzo Fiori nel fango (2008, in lingua originale Mudbound come la pellicola) di Hillary Jordan. Oltre alla regia, Rees ha curato la sceneggiatura del progetto lavorando a quattro mani con Virgil Williams.
La trama del film
Gli Stati Uniti sono vicini a fare il loro ingresso nel panorama del secondo conflitto mondiale. Henry McAllan (Jason Clarke) sposa la dimessa Laura (Carey Mulligan), e la coppia si trasferisce in una fattoria nel desolato e fangoso entroterra del Mississippi. Il fratello di Henry, l’amabile Jamie (Garrett Hedlund), viene mandato al fronte. La tenuta dei MacAllan è mantenuta e lavorata dai Jackson: i coniugi Hap (Rob Morgan) e Florence (Mary J. Blige), una famiglia di colore che sogna di riuscire a comprare un appezzamento di terreno per affrancarsi dai bianchi. Anche il figlio maggiore dei Jackson, Ronsel (Jason Mitchell), è stato chiamato al fronte. Laura, la moglie di Henry, soffre fortemente la vita di campagna, poiché fatica ad adattarsi. Nostalgica del mondo più urbano e civilizzato in cui è cresciuta, inizia a mostrare del malcontento nei confronti del marito.
Concluso il conflitto bellico, Ronsel e Jamie tornano dal fronte raggiungendo le famiglie nel Mississippi. Il primo, sensibilmente traumatizzato dagli eventi cui ha assistito, sfoga il suo malessere nell’alcool. Il secondo, invece, che in guerra veniva trattato al pari dei suoi commilitoni bianchi e godeva delle attenzioni delle donne europee, accusa fortemente il razzismo dilagante nelle campagne statunitensi. I due stringono così un forte rapporto d’amicizia, basato sulla comprensione reciproca. Ma se i Jackson temono eventuali ripercussioni causate dalla sfrontatezza del primogenito, i McAllan non vedono di buon occhio l’amicizia tra i due e tentano di allontanare Jamie. Le difficili condizioni della vita di campagna rivelano la vera natura dei protagonisti: Henry, influenzato dal padre affiliato al Ku Klux Klan, dimostra tendenze razziste, in conflitto con la tolleranza e la solidarietà della moglie Laura. Hap vorrebbe ottenere la libertà ma non riesce a negarsi a coloro che ha sempre considerato i propri padroni, mentre Florence acquisisce una propria indipendenza, fino a quel momento sconosciuta.
Mudbound: un film corale con protagonisti dalle personalità sfaccettate inficiato dalla retorica
Mudbound può essere definito a tutti gli effetti un film corale. Come nelle tradizionali saghe familiari, tutti i personaggi di spicco sono protagonisti e risulta perciò impossibile identificarne uno soltanto. La struttura filmica, marcatamente esagonale, instaura fra i suoi sei personaggi molteplici parallelismi e connessioni, basati sullo scarto etnico. Due sono le famiglie presenti, due le coppie di coniugi, due i giovani soldati di ritorno dal fronte, due le donne in cerca di una propria indipendenza e due le figure maschili vittime del retaggio delle generazioni precedenti.
Come è noto, il cinema statunitense si presta spesso alla trattazione dei grandi temi che hanno fatto la storia del proprio paese. Via libera, dunque, alle narrazioni che esplicitano il complesso rapporto tra popolazione bianca e nera o gli anni dei conflitti mondiali. Oltre al valore storiografico (non sempre valido) che certe opere possono assumere, Hollywood ha ben chiaro che film di questi toni tendono a riscuotere plateale successo nei circuiti delle premiazioni cinematografiche e fra il pubblico più pop, incentivo ulteriore nella realizzazione di questo tipo di lungometraggi. In tal senso, Mudbound è andato perfettamente incontro a queste prerogative, proponendo una commistione di temi storici e sociali di indubbia primaria importanza, forse rischiando però in più di un’occasione di sfiorare la retorica. Molti i temi trattati dal film infatti. Forse troppi, in una ricchezza di elementi narrativi che rischia di far sì che nessuno di essi venga debitamente approfondito.
Centrale è indubbiamente la questione razziale, come anche l’elemento narrativo del Ku Klux Klan e del coté relativo al dopoguerra. Ma forse, in una pellicola di tale impianto, ciò che più stupisce sono le considerazioni sul sessismo e sulle differenze tra generi, forse meno esposti dei precedenti ma altrettanto influenti. I personaggi di Laura e Florence sono infatti due facce di una stessa medaglia, che altri non è se non la rappresentazione della canonica condizione femminile del tempo. La seconda, più intraprendente, si vede comunque costretta a dover giustificare le proprie scelte professionali di fronte al marito, che ne vuole preservare la condizione di custode del focolaio domestico, mentre la prima è schiacciata in modo più lampante dallo scarsamente conciliante coniuge. Grazie a questa deriva narrativa, e a quella costituita dal rapporto che le due instaurano tra di loro, i personaggi femminili sembrano salvarsi (per quanto parzialmente) dalla bidimensionalità a cui sono relegati i ruoli maschili nel film.
La regia di Rees, in compenso, per quanto canonica, è pulita, ordinata e tendenzialmente scorrevole. La macchina da presa sembra ben conscia del valore canonico dei primi piani, tendenzialmente volti a lasciar trasparire con forza lo stato emotivo del personaggio, e ne usa a profusione. Rees si avvicina ad ognuno dei suoi sei protagonisti tramite decine su decine di primi – quando non primissimi – piani, quasi con insistenza. Per contro, l’altrettanto ampio uso che viene fatto del voiceover avrebbe giovato di un alleggerimento. I personaggi si passano infatti il testimone nell’esplicitare i loro pensieri, per mezzo di un ricorso alla tecnica che tende a diventare iperbolico, frammentario e probabilmente non necessario.
Le ambientazioni fanno da padrone in Mudbound, nello specifico quelle del delta del Mississippi. La fotografia della pellicola restituisce l’immagine di un ambiente rurale tutt’altro che idilliaco e rigoglioso quanto piuttosto spento e fangoso, torbido come i personaggi che lo abitano. La durezza degli spazi riflette deliberatamente quella dei protagonisti, e l’accostamento tra ambiente e attanti esplicita la predilezione di Rees per le metafore. Il lungometraggio è colmo di simbologie e metafore, ma due su tutte si impongono all’attenzione spettatoriale: il seppellimento paterno (letterale e come allontanamento dall’ideologia retrograda) e l’onnipresente fango, che sommerge campi e protagonisti, emblema della brutalità che sovrasta quei campi e quei luoghi.
Nella sua totalità, Mudbound attinge ad un bacino storico-geografico che certamente si presta ad una narrazione, innestandovi dei protagonisti che a loro volta si prestano all’innescarsi di dinamiche narrativamente accattivanti. Certo è che, se le premesse si muovono nell’ottica del successo di pubblico certo, tale risultato non può poi dirsi del tutto raggiunto, in ragione di una gravosità e soprattutto di una retorica che tendono ad intaccare l’organicità stessa del film.