Mamoru Hosoda, padre di Mirai, è affermato animatore e regista giapponese, ammiratore dell’intramontabile e tutelare Myazaki style, addestrato per anni in serie famose al grande pubblico come Dragon Ball, Sailor Moon, Slum Dunk e in film tratti da anime di altrettanto successo come Digimon e One Piece.
Raggiunge maturità personale ed artistica con le sue creazioni più recenti e più riuscite, legate alla formazione della sua casa di animazione indipendente, lo studio Chizu, con cui sforna opere originali e personali, come La Ragazza che saltava nel tempo, Summer Wars, Wolf children e The boy and the beast. Tutti titoli accomunati da un attenzione alla famiglia, alla paternità, alla maternità e alle età che si attraversano, in particolare, la cupa euforica, spettacolare e misteriosa adolescenza.
Mirai no Mirai è il suo ultimo lavoro ed ha per protagonista un bambino di quattro anni, gioia di una giovane famiglia che vive in una casa un po’ bizzarra, ma molto elegante, che si incastra in se stessa con stanze collegate come mattoncini di lego, scale e vetrate verso l’esterno e che fa quadrato attorno ad un giardino con al centro un albero bello, magnetico, che vive lì da chissà quanto tempo. Già così l’ambiente si presenta come scenario perfetto per una rappresentazione extra-ordinaria.
Kun è il nome del piccolo protagonista, che da un giorno all’altro, diventa fratello, e si deve confrontare con il nuovo membro della famiglia, una sorellina rumorosa, non autonoma, totalmente catalizzante l’attenzione dei genitori, di nome Mirai, ossia futuro in giapponese.
Non c’è verso che questa nuova veste di fratello maggiore vada giù al povero Kun, che tempesta le giornate dei genitori con grida colleriche, capricci, richieste di attenzione di ogni genere e specie, mentre la coppia di adulti si divide goffamente tra la repentina ripresa del lavoro da parte della madre e il nuovo ruolo di “mammo casalingo” con un computer come ufficio, per il padre.
Mentre la quotidianità della famigliola cambia e le abitudini anche, in sostegno delle piccole grandi crisi di Kun, appaiono inaspettati personaggi del presente, del passato e del futuro che lo aiutano a superare il complicato frangente, mostrandogli scenari, sogni, flash di vita vera o immaginata, che consentono al bambino di immagazzinare in un modo a lui congeniale il nuovo assetto familiare e di trovare il proprio equilibrio.
Presentato al Festival di Cannes 2018 nella Quinzaine des Realisateurs, candidato anche agli Oscar 2019 come miglior film di animazione, Mirai è un apologo dell’infanzia per l’infanzia e non solo: pensato da un regista, padre di due figli, racconta il disagio e i sentimenti contrastanti che sorgono all’indomani della nascita di un nuovo membro in famiglia. Più si è piccoli più è alta la probabilità di domande, raffronti e conflitti, cui gli stessi genitori spesso non sono capaci di porre adeguato rimedio.
La sfida è duplice: per chi stava al mondo prima, si tratta di scoprire di non essere più il centro di ogni cura profusa dagli adulti che lo crescevano; per madri e padri è invece la difficoltà di conciliare esigenze, tempi, spazi, abitudini precedenti, con nuovi ritmi e differenti necessità senza che il risultato sia traumatico. Ma se per i secondi la chiave è sempre e solo l’esperienza, il mettersi alla prova facendo le cose, per i bambini con sensibilità doppia e minori facoltà di conoscenza critica, l’impresa può risultare più ardua. Di qui la fuga nella fantasia, nei mondi paralleli in cui si è già grandi o si torna piccoli, per vedere come erano le cose o come saranno e capire, da chi è stato o da chi sarà, come comportarsi ora.
Questa visione si inserisce su misura nella tradizione con cui l’infanzia giapponese animata guarda inconsciamente al passato, mentore sorridente, dispensatore di verità; Mirai aggiunge lo stesso sentimento verso il futuro (mirai, appunto), che qui combatte la paura distopica dietro l’angolo ed approda ad una soluzione possibile. Lo ieri e il domani dunque sorridono; solo il presente duole ed è inconsapevole.
Ecco dunque che un bisnonno può insegnare ad andare in bicicletta, una sorella minore può salvare un fratello maggiore dal terrore perenne di essere abbandonato, un cane può trasformarsi in uomo e far sentire ancora di più la sua vitale compagnia, una madre apparentemente severa può rivelarsi bambina pestifera e dolcissima al pari del figlio che rimprovererà, un papà indaffarato è un bambino solo e fragile nella sua determinazione, un albero come tanti diventa la bibbia contenente la storia di una famiglia.
Nulla è impossibile se si sublimano paure ed euforie, anzi: tanto più forti sono le emozioni, tanto più enormi saranno i salti nel tempo, i viaggi metafisici, le apparizioni antropomorfe, gli scenari surreali e ipersimbolici, tipici di un immaginario infantile semplice, ma efficace.
Dritto al cuore della famiglia nel suo vivere in tempesta quotidiana, il film è diviso tra modernità lavorativa con ben poche ore di tregua e cultura tradizionale zeppa di credenze e di superstizioni pedissequamente venerate pena una diminuzione di felicità futura.
E’ da quei racconti che prende spunto Hosoda per delineare tra gli alti e bassi dell’umore di Kun, i suoi tragitti fantastici, guidati dalla suggestione di una sorella chiamata non a caso Futuro, la cui presenza proietterà il bambino proprio nel suo domani prossimo.
Con colori eccezionali, provenienti da una tavolozza di straordinaria delicatezza e generosità scorrono i disegni animati dall’inconfondibile tratto gentile e artigianale, che molto risente della scuola di Myazaki, tra interni casalinghi ricercati (il padre della storia è guarda caso architetto), ed esterni più immaginari che non reali, se si esclude la grande presenza dell’albero.
Archi, pianoforti e musiche di studiata leggerezza accompagnano le piccole grandi rivelazioni del protagonista, in lotta con se stesso per ritrovare proprio se stesso nel nuovo mondo intraducibile che gli si para di fronte. La solitudine e l’amore, la fiducia e la responsabilità sono questioni che permeano qualsiasi storia, sia essa piccola che grande; ma in questo caso la cassa di risonanza ha quattro anni ed un pianto facile, per cui tutto diventa possibile.
Tornano i giochi con animali che si trasformano in uomini e viceversa, come in molta produzione animata giapponese e in tanta cultura localmente diffusa; ci sono cadute da cieli capovolti, animazioni iperrealistiche con accelerazioni da brivido ed inquadrature immersive quasi da videogioco, soprattutto nei ricordi e nelle premonizioni, a dimostrazione della calibrazione a livello-bambino con cui è pensata e in parte realizzata la storia. I genitori appartengono anche loro a quell’inconsapevolezza incolpevole che nella Città incantata veniva sventata da Chihiro e qui accelerata dalla crescita di Kun.
La struttura narrativa è semplice; insiste e ripete i momenti di epifania, rendendo prevedibile che accadranno, ma mai come; è lì sta il gioco e la sorpresa, come un’avventura di un libro pop-up, di cui si sa di star sfogliando le pagine, ma non come esse si trasformeranno. Il conforto e lo sconforto, il timore e l’ardimento, la tristezza e l’allegria riassunti, assorbiti, digeriti e sublimati in una piccola ode poetica su come si mette il primo piede nel “mondo dei grandi”.