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Midsommar – Il villaggio dei dannati

«Sembra un altro mondo», quello rappresentato in Midsommar, ma infondo lo è davvero? Un gruppo di giovani americani accettano l’invito dell’amico svedese ad Hårga, la comune dove è cresciuto e che come altri suoi coetanei ha lasciato all’età di 18 anni per andare all’estero a studiare. Arrivati nei pressi del villaggio, assumono una droga psichedelica ed entrano immediatamente in una dimensione dalla quale forse non riusciranno mai a uscire. Uno spazio di sogno che diventa incubo, in un crescendo di inquietudini sempre più intense e di pericoli sempre più concreti.

Il regista statunitense Ari Aster si ispira ai classici del “folk horror” come The Wicker Man (1973) di Robin Hardy e si insinua nelle intercapedini del genere, fino alle soglie dell’omaggio e persino della parodia, per costruire questo film dell’orrore alla luce del sole. Fin dai primi minuti, poi, riprende il discorso già cominciato col precedente The Hereditary – Le radici del male (2018) riguardo la deformazione dell’impianto famigliare nel nostro presente. La protagonista Dani, su suggerimento del compagno Christian, ignora la richiesta d’aiuto della sorella bipolare e così non riesce a evitare la tragedia. Il che risulta ancora più drammatico se si considerano gli infiniti mezzi di comunicazione che abbiamo a disposizione oggi.

Midsommar

Insomma, la pellicola si apre con la messa in scena di una distanza emotiva, di un’alienazione ormai intrinseca al nostro sistema sociale, ma soprattutto con un’ambientazione invernale fortemente simbolica. Inoltre, Christian vorrebbe lasciare Dani già da qualche mese ma per codardia non riesce a parlarle onestamente. Quando giunge l’estate con la prospettiva del viaggio, quindi, siamo già in una fase di elaborazione del lutto, di ricerca identitaria e rifurmulazione relazionale. Tutto ingredienti per un film valido che Aster riesce ad amalgamare al meglio delle sue possibilità.

Intorno ai due giovani vediamo alcuni elementi tipici: il sessuomane e il secchione, i boschi, la setta, il “mostro”. Quasi che si volesse mettere tutte le carte sul tavolo in attesa di usarle per una partita dai risvolti non sempre così scontati. Midsommar è costruito con un grande senso del ritmo, tanto che i 140 minuti di durata non si sentono. La regia è creativa e molto lucida, priva di vezzi. La scelta degli attori, in particolare, rivela una forte sensibilità drammatica ma soprattutto visuale. La britannica Florence Pugh è una splendida Dani, con quei suoi occhi grandi e folli. Magnetici. E quel suo corpo appena sfatto che la rende ben più umana delle solite supermodelle tutte smorfie e urletti.

Midsommar

Le facce sono quelle giuste, al tempo stesso rassicuranti e terribili. Il bianco e i fiori si prestano a numerose letture ma ciò che più colpisce è la scelta di riempire gli spazi di illustrazioni, disegni, riproduzioni narrative di ciò che abbiamo visto o stiamo per vedere. L’intenzione teorica di questa operazione è evidente e molto suggestiva, tanto che non verrà dimenticata troppo presto. Come non sarà facile rimuovere dalla mente la fortissima implicazione metaforica del soggetto di Midsommar: quell’isolamento desensibilizzante e incestuoso appartiene tanto a Hårga quanto agli USA.

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Voto Autore: [usr 4,0]

Alessandro Marangio
Alessandro Marangio
Critico cinematografico per la RCS da olte 15 anni, ho collaborato con le più importarti testate giornalistiche, da Il Messaggero a La Stampa, come giornalista di cronaca, passando poi per Ciak, Nocturno, I Duellanti (Duel) di Gianni Canova, Cineforum e Segnocinema, come critico cinematografico.

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