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Maradona by Kusturica

È stato un miracolo. Un miracolo che la terra non sia balzata fuori dal proprio asse, quando più di un miliardo di persone hanno saltato all’unisono. Era la prima volta che un paese affossato dal peso del debito pubblico incontrava la gloria dinnanzi ad una delle potenze mondiali. Era il 22 giugno del 1986. Nello Stadio Azteca di Città del Messico, si giocavano i quarti di finale della Coppa del Mondo.

Ma quella non era solo una partita di calcio. E quello non fu solo un gol banalmente irregolare. Quella era Argentina vs. Inghilterra, e quello fu il gol segnato “un poco con la cabeza de Maradona y otro poco con la mano de Dios”. Era la rivincita dell’Argentina dopo l’umiliazione, i morti, il sangue della guerra delle Falkland (o las Malvinas, almeno per quella sera). È così, partendo dalla sregolatezza di un gesto che nasconde la sete di rivoluzione, che Emir Kusturica si muove, disordinato e ispirato, tra Argentina, Cuba, Napoli e Belgrado. Accanto a lui, Diego Armando Maradona.

Per chi volesse provare a capire le indecifrabili contraddizioni del re del Calcio esistono numerosi film e documentari che tentano con maggior efficacia l’impossibile mandato. Per chi sentisse la voglia di sedersi accanto all’immenso campione per il tempo di quattro chiacchiere, un paio di confessioni e un calcio al pallone, “Maradona By Kusturica” è probabilmente la scelta migliore.

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Emir Kusturica, il regista inventore di cinema surreale e grottesco, il cantastorie balcanico dalla satira graffiante come un gatto. Il suo mordace genio di Sarajevo è stato premiato con due palme d’Oro (“Papà è in viaggio d’affari” e “Underground”), un Leone d’Oro (per la miglior opera prima con “Ti ricordi di Dolly Bell?”) e un Leone d’argento (premio speciale per la regia per “Gatto nero, gatto bianco”).

E Diego Armando Maradona, il “ragazzo d’oro” che consegnò nelle passionali mani di Napoli due storici e magici scudetti, quelli delle stagioni 1986-1987 e 1989-1990. Quello che si può anche non capire nulla di calcio, ma se si hanno occhi capaci di vedere, e di godere, non si può che domandarsi: “Ma come diavolo ha fatto?”, o meglio come faceva. Perché ora El Pibe non è più in questo dannato mondo. Anche se continua a palleggiare danzando con le scarpe slacciate nella memoria di tutti noi.

Emir e Diego, dicevamo. Sono divenuti amici, forse quasi fratelli, lungo questo viaggio con aspirazioni documentaristiche. Emir Diego già lo amava. Glielo confessa fin da subito. Diego dapprima si dimostra un po’ diffidente nei confronti dell’ennesimo uomo intento ad inquisire, armato di telecamera, quel privato violentato e negato già troppe volte. Ma Emir sa mostrargli quanto l’Est Europa e il Sud delle Americhe abbiano in comune. E non solo l’essere stati colonizzati e vessati dallo strapotere degli Stati Uniti. Così il dialogo su schermo di due insoliti uomini di talento finisce per essere una partita che si decide di giocare facendo scendere in campo anche la famiglia, il passato, i trionfi, i difetti e le colpe.

“Maradona By Kusturica” vede la luce nel 2008, dopo anni di riprese, parole e appuntamenti mancati. L’idea del film documentario è del marzo 2005, ma quelli che si prevedevano 5 brevi mesi di lavoro si sono tramutati in anni di racconti, immagini e montaggi. Il film fu presentato a Cannes. Diego è stato il primo a palleggiare sulla Croisette, e l’unico che con il pallone ai piedi potesse far commuovere pubblico e critica, alla stessa appassionata e incontrollata maniera.

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“Maradona By Kusturica” non è un film su Maradona. Kusturica è così prepotentemente presente da infastidire. A tal punto che fa capolino la grottesca insinuazione che il Dio del calcio sia solo un pretesto per far brillare le accecanti luci dei riflettori. In realtà non si tratta nemmeno di un documentario. Non vi è alcuno schema narrativo evidente, alcuna indagine valorosamente perseguita. Questo è un film per Diego Armando Maradona. Un film che vuole essere manifesto dell’immensa ammirazione che Kusturica, così come ampissima parte del pianeta, nutre per l’eterno fuoriclasse argentino.

Maradona By Kusturica

Diego Armando Maradona e Emir Kusturica

“Sembra un personaggio di un romanzo ambientato durante la rivoluzione messicana. Non certo il miglior calciatore di tutti i tempi.” Osserva Kusturica. Forse è uscito da un film di Sergio Leone o di Sam Peckinpah. “Se non fosse stato un calciatore, probabilmente sarebbe stato un rivoluzionario”. Maradona spargeva il ferroso aroma della rivoluzione tutt’intorno. Lui non aveva bisogno di un pretesto per gettarsi nella mischia, aveva quell’impeto già conficcato dentro. Il ritratto di Kusturica è perfetto: riduce a brandelli l’icona del mito, beffeggia l’idolatria e rivela come il carico dell’adorazione abbia contribuito a condannarlo alla dissoluzione del corpo per compiacere lo stato di grazia in terra.

Kusturica si presenta nei primi minuti di questo film come il Diego Maradona del Cinema. La personalità del regista è eccessiva, sicura, tracotante. Ma forse solo un’indole così causticamente personalistica poteva accostarsi al carattere multiforme del Dio del pallone. Solo credendosi un po’ simili a quel genio incontenibile si può tentare di raccontarlo in modo autentico. Così sceglie di partire dall’inizio, da un ragazzino dai folti riccioli neri che sogna di giocare nella nazionale di calcio argentina e di vincere la Coppa del mondo. La dichiarazione d’intenti profetica e romantica di un bambino che palleggia senza mai staccare il pallone dal corpo, solo in quel cortile fangoso di Villa Fiorito. Senza cori, né musica, né sirene.

Eppure nell’inseguire un vissuto così affollato di umanità e affanno non è possibile accodarsi ad un preciso canovaccio documentale. Così si procede per tentativi, abbracciando suggestioni, accogliendo le sensazioni. Un po’ come si volesse far assaggiare allo spettatore l’istinto, la passionalità indomabile di cui Maradona era gocciolante fin dai primi passi mossi con il pallone fra i piedi.  “Sai che giocatore sarei stato se non avessi conosciuto la cocaina?” domanda Maradona a Emir Kusturica. “Che grande calciatore ci siamo persi!” riflette con gli occhi inumiditi. “Nessuno sta dentro di me, lì dove sto male sul serio. Io sono la mia colpa”. Suonano come parole di una combattuta confessione quelle che il regista sradica dall’animo del grande campione. Un’ammissione stonata se a pronunciarla è chi è stato capace di conquistare una rivincita di guerra vincendo una partita.

Ma in fondo il gioco di Diego Armando Maradona è come un terzo istinto primordiale, capace di guidare l’umanità tutta. Come l’impulso naturale alla sopravvivenza secondo Jung o le teorie sulla riproduzione di Freud. Maradona ha scortato la passione di tutti verso una fase evolutiva avanzata. Quella in cui il sogno di un bambino è realizzabile senza compromessi, almeno fino a quando si resta nell’erboso recinto verde.

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Maradona By Kusturica

In questo anomalo documentario non c’è solo Maradona, ma anche l’irragionevole congettura che possa davvero esserci sufficiente spazio anche per qualcos’altro, per qualcun altro oltre all’ingombrante e seducente impeto del Pibe. Qui c’è anche Kusturica, presente fin dalla prima scena, mai del tutto ai margini. Lui non si limita a porre domande ma propone anche numerose risposte. Alcune, va detto, anche estremamente attraenti. Lo sgomitare di Kusturica al fine di ritagliarsi qualche angolino narrativo a lui dedicato nel racconto dell’esistenza contrastata del calciatore suonerebbe come un autocompiacimento irritante, non fosse per la premura che il regista gli accorda con fare più che altruista.

Kusturica non capitalizza mai gli assist forniti da Maradona per approfondire gli argomenti più scottanti, nemmeno quando si parla di doping o dell’abuso di cocaina. Il regista sceglie di lasciarlo libero di raccontarsi con le parole che ritiene più giuste, libero di divagare, di essere caotico, emotivo, sentimentale. Quasi non volesse disturbarne l’autenticità Kusturica, pur autocelebrandosi davanti alla telecamera, riesce a farsi custode della purezza del fragile e combattivo Maradona, rinunciando ad ogni sorta di rimaneggiamento. Forse troppo simili per amore dell’eccesso e del proprio ego per indagare l’uno l’esistenza dell’altro, scelgono di farsi compagnia per una parte del viaggio, regalando a chi li ascolta la storia tutta, non solo calcistica, di anni di trionfi e cadute, risalite e debolezze.

Diego parla come un fiume in piena, come chi inaspettatamente si ritrovi davanti qualcuno disposto ad ascoltare senza giudicare, e allora giù di professioni di credo politico, di recriminazioni, di ammissioni di colpe dotate di disarmante sincerità. “Maradona by Kusturica” non segue alcuna cronologia. Si batte il calcio d’inizio sul “poema de gol” la cui realizzazione vide Maradona scartare sette giocatori della nazionale inglese prima di fine meravigliosamente in rete. Il ritmo di gioco rallenta per avere il tempo di raggiungere le favelas di Villa Fiorito e riappropriarsi dello spirito nobile, scomparso dalle case dei ricchi, che la povera gente custodisce da sempre.

Gli sgoccioli di questa folle partita si giocano dialogando dell’amicizia con Fidel Castro, quello che invece che “entrare in politica con i soldi, comprando consensi, lo ha fatto con il fucile”, perché è così che fanno i rivoluzionari che hanno a cuore il bene della gente, spiega un concitato Dieguito. Mostra alla camera i tatuaggi del “Che” Guevara e di Fidel Castro, e parla con orgoglio del viaggio, su quel treno di protesta contro la politica imperialista di Bush, diretto a Mar Del Plata, nel 2005.

 E si passa così, senza freni né mediazioni, a parlare della politica assassina di Bush e delle mani insanguinate di Carlo d’Inghilterra. Senza risparmiare invettive dirette a Ferlaino e Matarrese.

In “Maradona By Kusturica” si ritrovano due famiglie, una dietro le quinte, quella del regista (Dunia e Stribor Kusturica come assistente alla regia e curatore delle musiche), e l’altra costantemente presente, pazientemente accanto al grande campione, partecipe silenziosa nei fotogrammi di famiglia, ai margini delle riprese (Djalma e Gianina, le figlie del Pibe, e Claudia Villafane, ex moglie e premuroso guardaspalle dell’irregolare campione). E l’essenza di questo racconto risiede proprio qui, nel provare a restituire l’immagine non filtrata di un uomo geniale, debole, con una forte sensibilità per le ingiustizie e una immensa e ironica propensione per il sentimentalismo.

Kusturica sembra un perfetto complice per Maradona, adatto a condividere con lui genio, sregolatezza e utopici riferimenti politici. Gli occhi del regista sono i più adatti ad abbracciare con curiosità il folklore che si fomenta attorno al campione, compresa una Chiesa maradoniana consacrata al Dio Diego e ad alcune scene girate in night club in cui ragazze seminude ballano ammiccanti mentre la maggior parte del pubblico maschile viene distratta dallo schermo del televisore in cui gli incredibili gol del Pibe.

Maradona By Kusturica

Diego Armando Maradona e Manu Chao, autore dalla canzone “La Vita Tómbola” -colonna sonora del film ‘Maradona di Kusturica’.

Il gitano e il campione visitano la casa dove quest’ultimo è cresciuto con sette fratelli a Villa Fiorito e in cui non tornava da 15 anni. E insieme visitano Belgrado, dove vive la famiglia di Emir Kusturica. E lì si finisce a dare quattro calci ad un pallone nello stadio della Stella Rossa. Un documentario che termina sulle parole emozionate di Manu Chao, con una serenata dedicata alla vitalità pericolosamente incontenibile del calciatore più forte di tutti i tempi. Una canzone scritta proprio per lui, suonata davanti agli occhi commossi del campione, non del tutto nascosti dietro a occhiali scuri.

“Maradona By Kusturica” è non è un documentario che rispetta tutti i crismi richiesti dalla letteratura del genere, ma è capace di suggerire come sia possibile prendere per mano la memoria di un campione, senza cadere nella facile e insensata tentazione di esprimere verdetti.  Un racconto emozionato ed autentico, come il personaggio a cui è dedicato.

PANORAMICA RECENSIONE

regia
soggetto e sceneggiatura
interpretazioni
emozioni

SOMMARIO

"Maradona by Kusturica" è un documentario anomalo che dimentica di compiacere l'incarico divulgativo a favore di un'elaborazione narrativa creativa, quasi volesse tentare di pareggiare il genio del personaggio a cui è dedicato. Un racconto disordinato ma molto ispirato tra Argentina, Cuba, Napoli e Belgrado per conoscere la sete di rivoluzione del più grande calciatore di tutti i tempi.
Silvia Strada
Silvia Strada
Ama alla follia il cinema coreano: occhi a mandorla e inquadrature perfette, ma anche violenza, carne, sangue, martelli, e polipi mangiati vivi. Ma non è cattiva. Anzi, è sorprendentemente sentimentale, attenta alle dinamiche psicologiche di film noiosissimi, e capace di innamorarsi di un vecchio Tarkovskij d’annata. Ha studiato criminologia, e viene dalla Romagna: terra di registi visionari e sanguigni poeti. Ama la sregolatezza e le caotiche emozioni in cui la fa precipitare, ogni domenica, la sua Inter.

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