Poesia e matematica possono coincidere? Questa è la domanda a cui cerca di rispondere L’uomo che vide l’Infinito, il film del 2015 scritto e diretto da Matt Brown e basato sulla biografia L’uomo che vide l’infinito – La vita breve di Srinivasa Ramanujan, genio della matematica scritta da Robert Kanigel nel 1999.
L’uomo che vide l’infinito – la trama
Nel 1912 a Madras Srinivasa Ramanujan (Dev Patel), giovane indiano dalle geniali intuizioni matematiche in cerca di lavoro, si offre come contabile. I suoi capi gli consigliano di inviare i suoi lavori ad alcuni docenti di Cambridge e il professor Hardy (Jeremy Irons) in particolare, invita Ramanujan in Inghilterra per lavorare al Trinity College di Cambridge, sbalordito dal fatto che quei lavori provengano da un indiano senza alcuna preparazione accademica. Ramanujan, una volta arrivato a Cambridge, ha difficoltà con una comunità che non lo accetta e con un metodo che non comprende: il giovane asserisce di arrivare intuitivamente ai risultati che presenta al professore, mentre quest’ultimo insiste sul fatto che le formule perdono di significato senza le argomentazioni. La rigidità del professore viene presto sostituita dall’ammirazione nei confronti del ragazzo. Tra i due si sviluppa un’amicizia che porterà Hardy a difendere Ramanujan a spada tratta con i colleghi del college.
L’uomo che vide l’infinito – il cast
Srinivasa Ramanujan è interpretato dalla star di The millionaire, Dev Patel. Al suo fianco, il volto del rigoroso professor Hardy è quello dell’ottimo Jeremy Irons, accompagnato da Toby Jones nei panni del collega Littlewood. Stephen Fry è invece Sir Francis Spring, mentre Jeremy Northam e Kevin McNally interpretano i celebri matematici Bertrand Russell e Percy Alexander MacMahon. Il prof. Howard ha il volto di Anthony Calf, mentre Devika Bhise e Arundhati Nag sono rispettivamente la moglie Janaki e la madre Komalatammal.
L’uomo che vide l’infinito – la recensione
L’uomo che vide l’infinito premette e promette di parlare del legame tra poesia e numeri, tra bellezza e verità, tra intuizione e conoscenza, come se essi fossero un unicum e il mondo li avesse separati involontariamente. Nonostante la complessità e il fascino del tema, il film non riesce minimamente a parlarne, diventando esso stesso fonte della separazione che critica, in questo caso separazione tra forma e, presunta, sostanza.
L’opera sembra incentrarsi più sugli eventi che sul modo del protagonista di vedere il mondo, cosa che in un film con premesse del genere sarebbe dovuto essere il focus della pellicola. Da un genio incompreso come Ramanujan, capace di intuire processi matematici senza il bisogno di argomentarli, ci si aspetterebbe una personalità molto più complessa di quella di un semplice ragazzo genuinamente innamorato dei numeri, aspetto che del suo carattere dovrebbe rappresentare solo la punta dell’iceberg.
L’unico che ha visto l’infinito è Ramanujan
I personaggi e le relazioni tra di loro sono bidimensionali: si parla molto ma si vede poco. A Ramanujan viene detto continuamente che deve essere più umile, ma il personaggio non ci risulta mai presuntuoso, forse la presunzione si intravede ma non la si percepisce, non la si sente. Il ragazzo non si scompone mai, neanche quando viene rifiutato per le sue origini o per l’assenza di un percorso di studi tradizionale, atteggiamento pacifista poco realistico per una mente divergente come la sua.
Questo infinito di cui parla il protagonista viene solo detto, lo richiama il titolo, addirittura Ramanujan dice di prendere da una dimensione superiore, grazie alla sua dea, le intuizioni che non riesce ad argomentare, ma non c’è una volta che vediamo il suo rapporto con l’infinito, con la magia di cui parla. Sembra che quello che vive il protagonista sia segreto e che lo spettatore non possa mai goderne perché è impegnato a guardare il film, un film dove la regia eccessivamente semplice e priva, al contrario del protagonista, di valide intuizioni lo rende un banale riassunto della sua vita, senza che ci sia un minimo di introspezione, e rendendo così la domanda c’è un legame tra poesia e numeri? troppo in alto per un’opera con una narrazione così lineare.
Ottime interpretazioni e fotografia salvano la pellicola?
Neanche le interpretazioni magistrali degli attori riescono a compensare il semplicismo con cui lo spettatore è costretto ad avere a che fare. Le performance possono in alcuni momenti addolcire la pillola, sopratutto nelle argomentazioni di Jeremy Irons a metà strada tra scienza e filosofia, ma queste ultime perdono di significato quando vediamo che esse sono fine a loro stesse, e che non trovano mai spazio per farsi sentire sulla pelle di chi guarda la pellicola.
I due protagonisti risultano comunque convincenti, seppur debbano interpretare dei personaggi mal scritti, lo fanno bene. Patel è genuinamente entusiasta, tratta i numeri come figli, e poi convince lo spettatore quando gradualmente la malattia prende il sopravvento. Irons è elegante, rigoroso, indossa bene una rigidità che nasconde un cuore e una capacità empatica che hanno paura di venire fuori, e che il giovane genio gli farà ritrovare.
Gli interventi musicali, ridondanti e simili a quelli di una soap-opera anni ‘90, incorniciano il tutto con un melodramma non richiesto che allontana ancora di più dalla sottigliezza con cui si sarebbe potuta raccontare la psiche di una mente brillante come quella di Ramanujan. In compenso, la buona fotografia di Larry Smith potrebbe a primo acchito far pensare ad un film autoriale. Basta guardare i primi minuti per rendersi conto dell’inganno visivo.
Conclusioni
L’uomo che video l’infinito è un film con ottime interpretazioni e dignitoso dal punto di vista visivo, ma che non è riuscito a mantenere la promessa iniziale con lo spettatore, e che si rifugia in frasi fatte e astruse, che non vengono poi agite, dimostrate e rese carne a chi guarda la pellicola.