“L’ultima onda” è un film del 1977 diretto dal regista australiano Peter Weir. Esce a due anni di distanza dall’opera “Picnic ad Hanging Rock (Il lungo pomeriggio della morte)” con cui aveva raggiunto una grande fama e aveva lanciato la figura di Weir tra gli autori più promettenti del panorama cinematografico. Tra i suoi più grandi successi si può citare due cult assoluti “L’attimo fuggente” e “The Truman Show“, che lo hanno consacrato definitivamente presso critica e pubblico. L’opera in questione non rientra tra le più note della sua filmografia ma occupa comunque un tassello importante per comprenderne la sua poetica artistica.
L’ultima onda, trama
Un avvocato stimato accetta la causa di difendere un gruppo di aborigeni della città di Sydney, accusati di essere complici dell’omicidio di un uomo. Allo stesso tempo un brutto fenomeno climatico caratterizzato da forte vento e pioggia si staglia sulla città. Il sospetto che i due eventi possano essere collegati, insospettisce il protagonista, che inizia un personale percorso di indagine per motivare i suoi dubbi. L’apparizione in sogno di uno degli imputati accentua questo suo interesse nello scoprire la verità.
L’ultima onda, recensione
Peter Weir è un regista che, per l’enorme contributo che ha dato al cinema, è fin troppo dimenticato come autore, nonostante una poetica forte e uno stile di regia altamente professionale. Il suo nome viene ricordato meno rispetto a quello di tanti suoi colleghi. È uno dei pochi casi in cui i titoli sono più ricordati dell’artista che li ha diretti.
Il regista australiano merita invece un posto di riguardo, semplicemente perché ha messo sotto i riflettori la sua terra, raccontandone come in questo lavoro, storia e tradizioni. E lo ha fatto, prendendo come protagonisti parte dei vecchi abitanti autoctoni del luogo, le tribù aborigene.
Il cinema di Weir è caratterizzato sempre da un certo alone di mistero. I suoi personaggi sono spesso curiosi e affascinati dalla scoperta di verità nascoste. Essi si mettono in gioco per svelare e smascherare una falsa realtà schematizzata che predomina sul mondo. Personaggi che mettono sempre in discussione ciò che vedono, per svelarne i suoi meccanismi malsani.
“L’ultima onda” segue esattamente questo filone, con il suo protagonista che contrasta e si impone contro una fine che sembrerebbe già programmata da tempo, ovvero l’accusa di omicidio colposo inferta ai soggetti coinvolti. L’avvocato David scopre molto di più, e con tenacia e determinazione, si inoltra in una serie di fenomeni che destano non poca soggezione e preoccupazione.
La certezza dell’uomo contemporaneo viene meno e appare fragile di fronte al segreto che sembrano celare gli imputati e che mettono varie volte il protagonista nella condizione di cedimento. Per questa ragione si pervade la storia di un’atmosfera cupa e a tratti spaventosa. Ogni sicurezza sembra svanire, in favore di uno smarrimento continuo. Lo spettatore si ritrova quindi pervaso da quei piccoli brividi sulla schiena, esattamente come il suo protagonista, che però lo trascinano avanti nello scoprire quale sia il significato di quelle parole appena accennate dai coprotagonisti.
Il gruppo di autoctoni (e specialmente il loro leader) sono perciò rivestiti da un’aurea quasi sacrale e mistica. Tutto ciò che ruota intorno a queste figure, comprese le simbologie che si portano appresso, attraverso vari oggetti ambiguamente interpretabili o la doppia lettura che emerge dai loro discorsi, appaiono come tetri e inconoscibili.
Nonostante la drammaticità che caratterizza tutto l’evento, siamo di fronte a un omaggio che il regista compie nei confronti di quelle tribù. Dalla prima volta in cui gli europei mettono piede in quella vasta terra, quei popoli non conosceranno più pace e verranno schiavizzati e sfruttati dal dominio occidentale. Le origini vengono distrutte, per ricostruire una realtà nuova e completamente filtrata da quella originaria.
Il regista inserisce infatti gli aborigeni in una dimensione spirituale, apparentemente pura e onesta, come se non fossero stati minimamente intaccati dalla violenza tipica dell’uomo bianco. Si fanno invece portatori di verità assoluta, custodi di un segreto che sembra provenire dal contatto con la natura e dai fenomeni ambientali. Attributo primordiale che è stato sostituito dalla tecnica e dalla lenta burocrazia che caratterizza l’uomo contemporaneo dei nostri tempi.
La risposta viene fornita dalla natura e solo questi popoli che si sono mantenuti da sempre in contatto con essa, hanno diritto di conoscere i suoi segreti. Weir pone tutte le condizioni affinché ci si possa interrogare su quello che è stata la colonizzazione e sulle sue implicite conseguenze, che ne risentono fino ai giorni nostri.
Sogno e realtà inoltre si intrecciano, a sottolineare a maggior ragione, questa dimensione spirituale che coinvolge i protagonisti, e del loro legame con la natura. Per David l’unica chiave di accesso per conoscere la verità, è passare dalla profondità dei sogni e dai significati occulti che si trascinano dentro.
Ogni elemento (natura, spirito, sogno) costituisce quindi una visione della realtà all’opposto di quella occidentale, con la quale finisce ovviamente per scontrarsi.
David giunge alla verità nel finale del film, chiaramente simbolico e che rende questa pellicola degna di essere guardata, interessante per chiunque voglia approfondire il mondo degli aborigeni, che in quest’opera sono contraddistinti da un mistero attrattivo e che conduce velocemente verso la parte finale, in un ritmo notevole.
La regia è già ampiamente di alto livello, così come la recitazione degli attori, in primis Richard Chamberlain. La scelta dei casting riguardo ai personaggi di contorno, contribuisce a creare una storia appetibile e interessante.