Non poteva scegliere luogo più appropriato Sofia Coppola per raccontarci quella che forse è, tra le storie sentimentali, la più bella che il cinema abbia mai raccontato. A Tokio, la giovane cineasta trascorre diverso tempo per promuovere il suo primo film come regista, Il giardino delle vergine suicide del 1999. Rimane colpita dal Giappone e quando scrive la sceneggiatura di Lost in Translation qualche anno dopo, desidera fortemente che l’incontro romantico di due americani avvenga lì. E così, in una Tokio che la Coppola ci illustra come la città dei videoclip, del karaoke, dei neon accecanti, delle luci psichedeliche e dei rumori assordanti, Charlotte (Scarlett Johansson) e Bob Harris (Bill Murray) si conoscono.
Charlotte ha poco più di vent’anni. Da poco laureata in filosofia ancora non sa esattamente cosa fare della sua vita. Ha scelto di accompagnare in Giappone suo marito, fotografo di moda. Lui è sempre assente per via del lavoro, lei visita da sola un paese che proprio non riesce a comprendere. Bob di anni ne ha molti di più, ha una crisi di mezza età e la sua carriera d’attore segue un’inarrestabile discesa. Si è recato a Tokio per girare un ridicolo ma ben pagato spot per un noto whisky. E’ solo, la sua famiglia è rimasta negli Stati Uniti. Comunica con sua moglie tramite fax e le conversazioni riguardano per lo più il nuovo arredamento della loro casa. Charlotte e Bob sono soli ed insonni, ciondolano di notte per i corridoi dell’albergo nel quale soggiornano fino a quando nel bar, in attesa che il sonno arrivi, si conoscono. Inizialmente sembrano avere in comune solo il senso di straniamento e confusione che prova chiunque si trovi in un luogo straniero. Poi, uniti sempre di più dal bisogno di comunicare in un posto così estraneo e impersonale, Charlotte e Bob scoprono di essere due solitudini rassegnate ad una vita alla quale non sentono veramente di appartenere. Comprendono che uno accanto all’altro possono essere ciò che sono veramente e non quello che le convenzioni richiedono. Grazie alla loro “corrispondenza” in qualche modo ritrovano loro stessi.
Sofia Coppola sceglie di narrare questa delicata storia d’amore in modo raffinato e suggestivo. Una storia fatta di languidi sguardi e malinconiche parole. La sceneggiatura di Lost in Translation è probabilmente una delle più brevi mai scritte. In sole sette pagine la Coppola narra l’incontro di due anime e di un sentimento che va oltre il sesso e la differenza d’età. Non ci sono eventi clamorosi che lei ci racconta. Ci sono le scorribande notturne di Charlotte e Bob in una Tokio che sembra non voler dormire mai e le loro intime conversazioni nelle claustrofobiche camere di un hotel. Ciò che conta di più sono gli sguardi dei protagonisti nei quali si leggono tutte le parole non dette. E Sofia Coppola per questi momenti si affida spesso a dei primi piani che rivelano le emozioni più intense degli interpreti. Racconta questa magica intesa in punta di piedi, quasi con una sorta di pudore. E’ per questo forse che nella memorabile scena finale, nello straziante saluto tra i due nel bel mezzo di una Tokio caotica più che mai, la regista non ci consente di ascoltare ciò che Bob sussurra nell’orecchio a Charlotte poco prima di partire. Il sentimento che unisce i protagonisti è così inafferrabile, evanescente, da sfuggire ad ogni tipo di definizione.
Lost in Translation, infatti, il titolo del film, significa letteralmente “perso nella traduzione” ed è un’espressione che si utilizza quando alcune parole di una lingua se tradotte perdono il loro significato originario. Appare allora del tutto illogico che i distributori italiani abbiano inserito nel titolo del film la frase “l’amore tradotto” che non solo non aiuta a comprendere il senso profondo del film ma ne nega la sua stessa natura.
Quando Sofia Coppola decide di realizzare Lost in Translation ha già in mente gli attori che avrebbe voluto per il suo film. Sceglie Scarlett Johansson, all’epoca attrice poco più che maggiorenne e quasi del tutto sconosciuta, che in Lost in Translation rivela un’enorme maturità artistica. Riguardo a Bill Murray a quanto pare la Coppola neanche avrebbe girato il film se l’attore americano non avesse accettato di entrare a far parte del cast. E la sua è una meravigliosa interpretazione, probabilmente la migliore della sua carriera. Con il volto tragicomico ed un eccezionale senso dell’umorismo il personaggio di Bob e Bill Murray sono molto simili. All’inizio degli anni duemila la carriera di Bill Murray aveva avuto un arresto importante e dopo aver notato la sua interpretazione in Lost in Translation in molti compresero che grazie a questa splendida pellicola sarebbe tornato a far parte nuovamente del firmamento delle star hollywoodiane.
Quando il film nel 2004 venne nominato a ben quattro premi Oscar (tra cui la nomination come miglior attore protagonista) in tanti fecero il tifo per lui. Bill Murray non nascose in seguito la delusione per non aver vinto un premio così ambito. Di recente Sofia Coppola e Bill Murray sono tornati a lavorare insieme e nel 2020 uscirà On the rocks una pellicola tragicomica sulle vicende di una giovane madre che intraprende un viaggio a New York per riallacciare i rapporti con un padre playboy.Visto il magnifico risultato ottenuto dalla loro collaborazione in Lost in Translation non possiamo fare altro che aspettare fiduciosi che il film giunga nelle sale.
Voto Autore: [usr 4,5]