Shaker Heights è la prima comunità pianificata d’America. Una brochure di benvenuto per i nuovi arrivati in cambio del rispetto di alcune semplici regole di buon vicinato. Un quartiere pianificato per evitare incertezze e scongiurare disastri. Viene naturale domandarsi se anche per le nostre esistenze valga lo stesso principio. Fino a che punto ci è concesso di pianificare il nostro destino? E soprattutto lo desideriamo davvero?
“Little Fires Everywhere” è la serie appena approdata su Amazon Prime Video. Tratta dal romanzo omonimo di Celeste Ng, la serie è stata voluta, prodotta e diretta da donne. Le vite intrappolate tra le pagine di questo romanzo sono così piene di segreti e risentimento, di perbenismo e ribellione, da aver convinto le due magnetiche e antitetiche interpreti protagoniste a diventare anche le produttrici esecutive della serie. Il libro è stato notato da Reese Witherspoon (moglie e madre im-perfetta in “Big Little Lies”), che lo ha proposto nel suo “Reese Book Club”. L’attrice ha poi coinvolto Kerry Washington (protagonista della serie “Scandal” e moglie del “Django Unchained” di Tarantino).
Nulla offre caldo conforto come la devozione alle regole. L’ordine sa placare le insicurezze e mettere sotto chiave gli affanni. Per questo a Shaker Heights l’erba del giardino non crescerà oltre i 15 centimetri: perché nelle belle case vivono le brave persone, perché sul sedile di ogni auto familiare ben lavata siede un amorevole genitore, perché su ogni panca della chiesa di quartiere, ogni domenica mattina, si reggono ginocchia caritatevoli. Gli abitanti di Shaker, privilegiati bianchi benestanti d’America, sono sicuri di aver bandito orrori, caos e discriminazioni dal loro progressista quartiere.
Perché allora una giornalista ambiziosa viene elogiata unicamente in quanto personificazione della madre perfetta? Perché alla festa di compleanno di una bambina di origine cinese si offrono biscotti della fortuna come se i suoi occhi a mandorla, alla stregua di vezzose lentiggini, fossero solo un esotico gadget? E per quale ragione un’artista talentuosa se afroamericana viene scambiata per una senzatetto?
“Little Fires Everywhere” inizia dalla fine. Da una casa in fiamme. Una dimora perfetta dovorata dal fuoco: il simbolo della realizzazione del sogno di ogni buon americano, un idolo caduto, distrutto per sempre. L’incendio divampato nella villa dei Richardson è doloso e i primi sospetti ricadono su Izzy, la figlia impulsiva e ribelle.
Per otto puntate si procede a ritroso, origliando ogni conversazione, sbirciando sotto ogni tappeto, partecipando ad ogni cena di famiglia di quel maniacale e ordinato quartiere di Cleveland. Un idilliaco sobborgo in cui si è deciso di essere felici: soddisfatti per ordinanza di quartiere.
Reese Witherspoon ha amato il progetto fin da subito e viene naturale domandarsi se abbia immediatamente desiderato vestire i panni dell’insopportabile Elena Richardson. Chiunque provi a turbare l’ordine da lei costituito sarà un suo nemico, fosse anche l’indocile figlia Izzy. Elena è una “American Mother” borghese e ossessiva, capace di imprigionare i figli con la stessa dedizione con cui suddivide le loro colazioni: in quattro organizzati sacchetti colorati, uno per figlio. Costringe l’intera famiglia a sorridere nelle foto, a vestire in modo appropriato, a inseguire perfezione e successo. Ha costretto se stessa a rinunciare ad una vera carriera nel giornalismo, ha deciso di programmare il sesso con il marito (permesso solo il mercoledì e il sabato) e ha deciso di fare della maternità esemplare la sua più grande aspirazione.
Vorremo chiederle se non muore dalla voglia di scompigliarsi i capelli, se non desidera alzare la voce durante le riunioni settimanali del club del libro, se non vuole concedersi più di mezzo bicchiere di vino bianco. Elena, sicura di non desiderare di più?
A sfilacciare il costoso abito da finta progressista che Elena ha deciso di vestire ogni giorno sarà Mia (Kerry Washington), un’artista ribelle afroamericana, indipendente, girovaga e ispirata. Una donna schiva, che ha imparato a tenere le mani bene in vista davanti agli uomini in divisa e a rifiutare con un freddo sorriso le offerte d’aiuto. Una donna che ha riposto tutto il suo passato sul fondo di una valigia e deciso di cambiare spesso indirizzo, di attraversare il paese con la sua Chevrolet blu, approdando con la figlia Pearl in porti sempre nuovi.
Mia sa che il colore della pelle fa la differenza anche a Shaker Heights, perché spesso chi sbandiera di aver partecipato alle tue stesse battaglie è anche chi ha goduto dei vantaggi derivanti dalle tue sconfitte. E così mentre Elena non perde mai occasione di ricordare che la madre ha marciato accanto al reverendo King, Mia storce il naso (la vedremo farlo spesso), la fissa con sospetto, non smette di guardarsi le spalle.
Vorremmo suggerirle che qualche volta conviene fidarsi, vorremmo poterle far notare che sua figlia Pearl desidera stabilità. Mia, vuoi forse che tua figlia si convinca che l’assillante Elena sia un madre migliore di te?
“Little Fires Everywhere” sfida lo spettatore a prendere posizione, a parteggiare per una delle due brillanti per quanto irritanti donne che salgono sul ring in quell’invidiato per quanto soffocante pezzetto d’America. Si sarebbe tentati di incoraggiare l’eversiva, l’estranea venuta a soverchiare il sistema con arte e vita vera. Eppure anche lei pare essere incline alla menzogna, e di certo non è immune ad una alta dose di egoismo.
Fin dal primo incontro le due donne entreranno in collisione; ma c’è molto di cui dovrebbero parlare. Entrambe sanno cosa significa continuare a dimenare le ali contro le pareti di una gabbia troppo piccola: la differenza è che una di loro ha finto che la gabbia non esistesse affatto, l’altra ha sfondato la porta d’ingresso con una violenza tale da rimpiangere di non potervi fare ritorno.
“Little Fires Everywhere” è una storia dominata dalle donne ma non per questo si è deciso di raccontarla in modo edulcorato. I personaggi non sono vittima di nessun isterismo, non si mostreranno indulgenti né cadranno prede di un’improbabile solidarietà femminile. Elena e Mia sono troppo distanti per conoscersi davvero, e la loro contrapposta natura viene rispettata fino all’ultimo episodio. Gli uomini rimangono ai margini della scena, senza comprendere granché, senza capire che la loro indolenza ha giocato un ruolo chiave nell’allontanare le donne intorno a loro dalla realizzazione dei propri sogni.
Elena e Mia: donne e madri diverse, perché sono state figlie che hanno risposto alle aspettative delle rispettive madri in modo opposto. Punteranno il dito l’una contro l’altra, entrambe convinte di essere le madri migliori che i loro figli potrebbero avere. Ma saranno proprio i loro figli a metterle con le spalle al muro.
Sentirsi figlio di una madre diversa dalla propria, o desiderare di esserlo. Cercare rifugio fra le braccia di qualcuno che sappia ospitare le nostre paure in modo più naturale di quanto non sapesse fare chi ci ha cresciuto. Un aspetto tanto umano quanto perverso. È questo il vero punto di forza di “Little Fires Everywhere”: l’urgenza di scandagliare gli aspetti meno confessabili dell’essere madri e dell’essere figli.
I figli appartengono a chi li ha messi al mondo o ai genitori che li hanno desiderati? A chi ha i soldi per comprare i loro sogni o alle persone alle quali scelgono di affidare i loro desideri?
Reese Witherspoon e Kerry Washington prendono per mano i loro personaggi, li accompagnano nell’affiorare delle loro paure e nell’esplosione devastante delle loro contraddizioni. Sulle loro interpretazioni si regge tutta la coerenza della narrazione e i loro volti sanno portarne il peso meravigliosamente. Meritano applausi anche le due attrici che nel lungo flashback vestono i panni di Elena e Mia da adolescenti. Sono Anna Sophia Robb (la giovane Carrie Bradshaw in “The Carrie Diaries”) e Tiffany Boone (vista recentemente nella squadra di cacciatori di Al Pacino – “Hunters”). Le due giovani attrici hanno letto ogni sfumatura che la Witherspoon e la Washington avevano regalato ai personaggi, riproponendone i gesti, le contrazioni nervose, le espressioni.
“Little Fires Everywhere” sembra inseguire il successo ottenuto da “Big Little Lies”. Ed è proprio nell’emulazione che questa serie lascia intravedere il suo fianco più debole. La cornice mistery, che funziona da ottimo collante nella serie HBO, qui finisce per risultare come una forzatura thriller poco adatta alla complessità degli interrogativi che si rincorrono durante la storia. L’incendio delle primissime scene ritorna nel finale con l’intento di trovare il colpevole con le mani nel sacco, eppure scoprire chi ha acceso il primo fiammifero non sembra più così importante. Un giallo a cui anche lo spettatore più indelicato ed invadente aveva già rinunciato da tempo.
“Little Fires Everywhere” soccombe leggermente della smania di voler esprimere troppi messaggi, innalzando a granitico simbolo ogni personaggio. Ogni bellissimo dialogo si presta ad essere letto fra le righe e ogni bellissimo volto ad essere indagato, scrutato, accolto o respinto. Rincorre la perfezione è l’unico autentico difetto di una serie destabilizzante e profonda, ben scritta e magistralmente trasportata sullo schermo. A ben vedere “Little Fires Everywhere” sa essere meno leziosa e scontata di “Big Little Lies”, più sporca e distruttrice. Laddove il nemico era una mascolinità velenosa e la soluzione un’empatia femminile ritrovata, in questa vicenda il dilemma e le vie di fuga non si intravedono facilmente. Lasciare che tutto anneghi nel fuoco potrebbe essere l’unica liberazione possibile.
“Un giorno ti svegli e sei quello che sei. Non sai come lo sei diventato”. Non ricordi di aver abbassato la testa, eppure tutto ciò che hai fra le mani ti ricorda ciò a cui hai rinunciato. Sono tanti i piccoli fuochi pronti a divampare, minacciando di bruciare la fune che ci mantiene miracolosamente in equilibrio fra ciò che avremmo voluto essere e ciò che inaspettatamente ci siamo ritrovati ad essere. Il funambolo della vostra anima su quale corda sta procedendo? Saprebbe rimettersi in piedi su un cumulo di cenere?