Unico film italiano in concorso al Festival di Berlino 2022, “Leonora Addio” ha ricevuto il Premio FIPRESCI.
Cinema senza condizionamenti, “Leonora Addio” di Paolo Taviani, opera stratificata, in bilico tra cronaca, documentario e poesia. Nel finale, una sorpresa: un’appendice: “Il chiodo”, micro-film nel film, tratto da un testo di Luigi Pirandello, novella lacerante che il premio Nobel siciliano scrisse venti giorni prima di morire.
Leonora Addio, il cinema incontra il teatro
“Leonora Addio” omaggia il teatro (il rosone in apertura e chiusura sta a ribadirlo), la letteratura italiana, e il cinema di Visconti, De Sica, Rossellini. Il film alterna bianco e nero e colore. Talvolta il grigio si mescola al rosso vivo: in una scena il fuoco arde e riduce in cenere.
Il film è una riflessione sulla morte e sull’assurdità del male.
Paolo Taviani (1931) con “Leonora Addio” realizza un’opera libera e sentita che parla di eventi paradossali e tragici; alcuni drammaticamente comici. L’ironia si fonde col dolore. La storia arriva al cuore di chi guarda. Soprattutto nell’epilogo quando le immagini si fanno potenti e indimenticabili. Disturbanti, fastidiose.
Leonora Addio, in ricordo di Vittorio Taviani
“Leonora Addio” è una lettera d’amore a Vittorio Taviani (scomparso nel 2018), fratello di Paolo e a lungo compagno di lavoro. Ma è pure un’ode a uno scrittore caro sia a Paolo sia a Vittorio: Luigi Pirandello, al quale avevano dedicato “Kaos”, negli anni Ottanta.
La sceneggiatura di “Kaos” era tratta, appunto, da “Novelle per un anno”. I Taviani sono sempre stati affascinanti dalla Sicilia dove, sentivano, avrebbero potuto girare un cinema grandioso ed epico.
“Leonora Addio”, ha raccontato Paolo Taviani, era in cantiere da parecchio tempo, i due fratelli volevano tanto realizzarlo ma il progetto restò fermo per mancanza di soldi.
Il titolo “Leonora Addio” si riferisce a una novella di Pirandello della quale però non v’è traccia nella pellicola. Perché il film spiega la storia travagliata e, quasi inverosimile, delle ceneri del Premio Nobel: morto a Roma nel 1936, e cremato, trovò sistemazione nel monumento funebre, in Sicilia, nella campagna in cui era nato, soltanto negli anni Sessanta. In mezzo tutta una serie di rocambolesche avventure che sembrano proprio, paradossalmente, frutto della penna di Pirandello. Invece sono accadute per davvero.
Leonora Addio, il viaggio delle ceneri di Pirandello
Taviani, quindi, dà notizia del viaggio delle ceneri, da Roma ad Agrigento, prima in aereo, un apparecchio americano, dal quale però le ceneri, assieme all’uomo incaricato (dal Comune di Agrigento) di trasportarle, vengono subito fatte scendere. L’equipaggio non vuole decollare e neanche i passeggeri (la scena rende perfettamente la stramberia). Per superstizione. Lo dicono chiaro e tondo: hanno paura di “volare con un morto”.
Così l’incaricato (interpretato da un perfetto Fabrizio Ferracane) prende la pesante cassa di legno e raggiunge la Sicilia in treno. Un treno affollatissimo, dove la gente se ne sta, stretta stretta, chi a giocare a carte, chi a far l’amore. Momenti di un certo periodo della storia d’Italia, memorie d’infanzia di Paolo Taviani. Lui stesso saliva su quei treni da piccolo, accanto a passeggeri felici di fumare sigarette americane.
Sono scene della vita di Taviani ma anche ricordo del cinema del dopoguerra, punto di riferimento dei Taviani, sentito come un nuovo risorgimento (ed ecco spiegato l’uso del bianco e nero).
Ironica e teatrale la sequenza del corteo funebre che accompagna le ceneri dello scrittore, messe in una bara per fanciulli. Il corteo sfila, le persone assistono, affacciate al balcone. Ci sono gli attori che lavorarono con Pirandello. Ci sono le persone comuni. Famiglie al completo. Alcuni salutano in religioso silenzio, altri non ce la fanno a trattenere le risate, sotto i baffi. Trovano ridicola la cassa piccina piccina e sghignazzano. Il grottesco domina.
Leonora Addio, Il Chiodo
“Il chiodo”, epilogo di “Leonora Addio”, girato con una fotografia dai colori intensi, è ambientato negli anni Trenta, a New York. Ispirato a un fatto di cronaca. La trama: un minorenne italiano, figlio di un ristoratore emigrato negli Stati Uniti, uccide con un grosso chiodo, trovato a terra, una bambina, sua coetanea.
Violenza cieca che scaturisce dal nulla; inspiegabilmente. O forse, pare suggerire la narrazione, il gesto folle è frutto di una ferita profonda che il bambino si porta dentro. Uno strappo. Un disagio scaturito dall’addio agli affetti più cari, sradicato dalla sua terra natale. Strappato via dalle braccia della madre e portato, lontano, in America. La terra del sogno dove lo attende un nero futuro.
Il fatto: la vittima, Betty, all’incirca di sette, otto anni, capelli rossi, litiga furiosamente con un’altra ragazzina. Si picchiano senza un perché. Violenza cieca e misteriosa. Bastianeddu, l’autore del delitto, se ne sta muto a guardare, fermo. Le due strillano, strepitano. La piccola dai capelli fulvi mostra la lingua (è l’immagine forte scelta per il manifesto del film) e si lancia contro l’altra. Selvaggiamente si danno botte. Furibonde.
Intorno regna il silenzio. Tutto è immobile. Tutto è irreale.
Sono istanti che restano addosso, nella pelle, nelle mente.
A un tratto Bastianeddu, impugnando un grosso chiodo, ferisce a morte la bimba.
Bastianeddu dirà alla polizia che lui non c’entra nulla, che non è colpevole, perché il chiodo si trovava lì apposta, apposta per portarlo sulla cattiva strada. Apposta per scatenare la disgrazia.
Una storia onirica e dolorosa. Quanto visionario e amaro è “Leonora Addio”.