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Le verità (La vérité)

Magia e bugia. Incantesimo e verità. La fioritura di un ciliegio che continua a prosperare anche fuori stagione. Un origami che, una volta nelle nostre mani, mostra un’anima di cristallo. È possibile? È la verità oppure no?

È bello avere dei sogni, ma è più facile non averne. È seducente conversare con la fantasia, ma sembra avventato. Hirokazu Kore’eda dedica il suo ultimo film a chi non ha troppa fretta di scoprire la vera essenza delle cose, a chi vuole concedersi ancora qualche tempo in compagnia dell’illusione. “Le Verità” si cerca, si scopre e si spoglia, per poi rivestirsi di eleganti abiti di scena, pronta a macchiarsi del fascino della finzione.

La verità
Catherine Deneuve interpreta la diva Fabienne.

Hirokazu Kore’eda ama viaggiare attraverso lo spirito dei suoi personaggi, scoprendone il coraggio, perdonando la vigliaccheria, fingendo di credere alle loro bugie, innamorandosi della loro umanità. Esplora le gracili armonie familiari, perlustra i terreni farraginosi su cui svettano le cattedrali della morale, percorre il solco lasciato dalle ferite in cerca di una superficie su cui sia possibile adagiare la bandiera della riconciliazione. Kore’eda non abbandona il suo genio malinconico e sentimentale e approda in Francia, con tutta la sua poesia. Ad attenderlo il mito, Catherine Deneuve, e il sorriso amaro ma leggero del cinema d’Oltralpe, che sa schiudersi anche di fronte al tormento.

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Non incontreremo i ladruncoli di “Un affare di famiglia” per le vie di Parigi, ma gli impostori non mancheranno. Né ci imbatteremo nelle giovani donne di “Little Sister”, ma faremo la conoscenza di donne cresciute, fragili e indistruttibili al contempo. Donne che lasciano volentieri gli uomini a letto o in cucina perché il gioco della verità lo sanno ingannare da sole. Dopotutto quelle donne sono Catherine Deneuve e Juliette Binoche: eroine, icone, leggende a cui la telecamera di Kore’eda non poteva che rivolgere un ammaliato inchino.

La verità
Juliette Binoche (Lumir); Catherine Deneuve (Fabienne); Ethan Hawke (Hank).

La Deneuve incarna il suo stesso mito, sfidando a viso aperto la sua aura di mistero. Kore-eda evoca la Deneuve di “Bella di giorno” grazie al vestito nero con il colletto bianco da lei indossato in quel film, regalando quell’abito alla promettente attrice pronta a rubarle la scena: Catherine, come il suo personaggio Fabienne, non cederà il passo senza prima assestare qualche bel colpo. Ma se la Deneuve gioca d’attacco, il regista giapponese, nella sua prima “trasferta” internazionale, si schiera nelle retrovie, là dove può osservare tutto, senza appartenere, né parteggiare: “Le verità” non si immerge nel tormento, si lascia cullare dall’affanno, non dimenticando di schernirlo; e la beffa è tutta opera della magnetica Deneuve.

“Le verità” di Kore’eda, che ha aperto in Concorso la 76ma Mostra di Venezia, è la storia di Fabienne (Catherine Deneuve), un’attrice per cui la finzione è divenuta l’unica sincerità di cui è capace. Una donna che ha rinunciato alla verità, perché di quella verità sono assetati i suoi personaggi e le sembrerebbe davvero poco professionale trattenerne un po’ per sé. “Meglio essere una cattiva madre, una cattiva amica, ma una buona attrice”.

La figlia Lumir (Juliette Binoche) è una sceneggiatrice. Lei cerca la verità, la cerca nella famiglia che ha costruito lontano da Parigi, nelle storie che scrive, nelle parole della madre dove non riesce mai a scorgerne nemmeno un po’. Vive a New York, ma decide di tornare in Francia per affrontare la madre, e i suoi inganni di attrice. Armata di un premuroso marito (Ethan Hawke) e di una dolcissima figlioletta (Clémentine Grenier), Lumir vuole dimostrare a se stessa, e soprattutto alla diva Fabienne, la sua autenticità, così lontana dall’anima posticcia della madre.

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Con quale coraggio Fabienne è riuscita a riempire la sua autobiografia di così tante menzogne? Crede davvero di essere stata una madre presente per Lumir? Fabienne si smarca da quei fastidiosi rimproveri così come fa con tutte le persone della sua vita: appellandosi al suo irrinunciabile diritto di fingere che la vita sia esattamente come vuole che sia. Come sul set. Il pubblico sa perdonarle ogni cosa, la sua famiglia potrà fare lo stesso?

La verità

Non lasciatevi raggirare: “Le Verità” non è un film ingabbiato in uno schema narrativo tradizionale come sembrerebbe. È un film che sa mettersi davanti allo specchio, riflettere se stesso, e dare vita così a molte trasformazioni: il reale si fa magia e la finzione si materializza.

Ci sono l’improvvisa voglia di danzare per le strade di Parigi, un nonno trasformato in tartaruga per volere di un incantesimo e fantasmi che riappaiono per concedere il tempo di riappacificarci con loro. La verità è una magia, poca importa se sia reale o meno.

C’è il cinema. Ci siamo noi. C’è tutta la nostra voglia di credere che sia vero. Ci sono gli attori a fingere e a lottare per ciò che vorremmo fosse vero. Ci sono le loro storie, vere storie, vere anche se si animano dentro uno schermo. “Le Verità” è un film che rivela e nasconde, mostra e tace. Un incanto giapponese nella fatata Parigi.

Voto Autore: [usr 3,5]

Silvia Strada
Silvia Strada
Ama alla follia il cinema coreano: occhi a mandorla e inquadrature perfette, ma anche violenza, carne, sangue, martelli, e polipi mangiati vivi. Ma non è cattiva. Anzi, è sorprendentemente sentimentale, attenta alle dinamiche psicologiche di film noiosissimi, e capace di innamorarsi di un vecchio Tarkovskij d’annata. Ha studiato criminologia, e viene dalla Romagna: terra di registi visionari e sanguigni poeti. Ama la sregolatezza e le caotiche emozioni in cui la fa precipitare, ogni domenica, la sua Inter.

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