Ispirato al romanzo Tarantula dello scrittore francese Thierry Jonquet, Pedro Almodóvar realizza un lungometraggio provocatorio e disturbante che esplora temi quali l’identità di genere, la femminilità, l’arte e le gerarchie di potere rendendo La pelle che abito un film in bilico tra Hitchcock e Cronenberg.
La trama
Un brillante chirurgo plastico perde la moglie, Gal, in un grave incidente d’auto. A seguito di questo evento realizza una pelle sintetica che avrebbe potuto salvarla. Necessitando di una cavia, Robert (Antonio Banderas) non si fa scrupoli a sperimentarla su Vincente (Jan Cornet), l’uomo che ne violentò la figlia.
La pelle che abito – Recensione
Il titolo stesso del lungometraggio – La pelle che abito – ce ne suggerisce il contenuto. È un film sui corpi quali prigioni, la pelle quale barriera. Almodóvar decide di asserire questo messaggio attraverso delle sapienti dissolvenze: dal cancello serrato della villa, alle finestre con le inferiate fino al posarsi della macchina da presa sul corpo sinuoso e costretto di una donna in un body.
I film del regista frequentemente hanno affrontato temi quali vendetta, il desiderio e l’ossessione attraverso il corpo tanto che, Linda Williams parlerà di genere del corpo, poiché spesso essi presentano lo “spettacolo di un corpo catturato nella morsa di sensazioni o emozioni intense”. In questa sede nel particolare, si affronterà il tema qui imbastito tra l’opera d’arte ed il suo creatore.
Stando alle osservazioni di Paul Crowther, esiste un intimo rapporto tra artista ed opera che condurrebbe, attraverso la produzione della stessa, alla risoluzione dei traumi superando il dualismo anima – corpo. La pelle che abito ci mostra esattamente ciò: operando come un moderno dottor Frankenstein, Robert esprime la propria realtà interiore plasmando Vera (Elena Anaya) ad immagine e somiglianza della moglie defunta Gal. Non solo: così facendo ricompone il proprio sé frantumato facendolo convergere nella sua compiuta opera d’arte Vera, appunto.
Tale nozione risulta ancor più esasperata dalla messa in scena. Molteplici sono le copie di opere d’arte esposte all’interno dell’abitazione ma citiamo, in maniera specifica, quelle raffiguranti la Venere. Ricorrono nuovamente il tema della creazione artistica e del rapporto artista – opera.
Un mito questo, che coinvolge più direttamente anche Robert e Vera. Emblematica in tal senso é l’inquadratura ( qui riportata in apertura dell’articolo) che vede la donna emulare la posa della Venere di Urbino di Tiziano ed essere osservata dal proprio “padre” artistico. Il personaggio di Antonio Banderas é qui autore, un Dio scellerato al vertice di una piramide di potere dove Vera risulta schiacciata.
Tema, quello della gerarchia, enfatizzato persino dalla dinamica dello sguardo: Vera é osservata da un monitor così come noi spettatori osserviamo l’intera vicenda da uno schermo. In fondo, seguendo quanto ci suggerisce il regista, noi e Robert non siamo poi così diversi poiché ciò che ci accomuna é essere voyeur. Ecco dunque la dinamica dello sguardo e del suo potere intrinseco al medium cinema stesso.
Il rapporto binario uomo – donna e artista – creazione é centrale nella prima parte del film. Robert non é solo un moderno Frankenstein o un Dio folle, ma é un’ artista. Il suo atto creativo é la chirurgia, il suo capolavoro é Vera in quanto oggetto del desiderio (il tema dell’oggettificazione femminile é spesso asserito con riprese a volo d’uccello sul corpo di Vera o su manichini femminei). Vera é un capolavoro poiché, come dirà lei stessa, “sono fatta a tua misura”.
Questo sistema duale verrà successivamente posto in crisi quando la donna comprenderà il proprio potenziale creativo e riuscirà, grazie al potere catartico dell’arte, ad emanciparsi. Il trucco – potenziale forma di imprigionamento di genere – é qui utilizzato per mitigare e risolvere il trauma attraverso il suo impiego nell’arte.
La psicoanalista Arlene Kramer Richards nota come il film di Almodovar offra uno sguardo critico al mito della creazione femminile. Fin dalla ascita di Eva passando per le osservazioni di Freud, le donne sono sempre state definite dalla loro controparte maschile e ad esse assoggettate. L’idea di una femminilità legata al piacere e alla sottomissione patriarcale anche qui é forte ma viene rovesciata. Quando Robert decide di trasformare Vincente in Vera, di fatto, ne plasma solo la dimensione superficiale, non identitaria. La pelle che abito ci racconta di come la società patriarcale imprigioni le donne e le costringa in corpi – o pelli – che si tramutano in forme di controllo sociale.
Il simbolismo della pelle é denso e profondo in quanto rappresenta la barriera tra noi e gli altri, la possibilità di sperimentare piacere o dolore. Risulta rilevante nell’instaurazione di rapporti umani (specie tra madri e figli). Tuttavia, essendo la pelle di Vera proprietà di Robert, ella non ha neanche la possibilità di autodeterminarsi – almeno fino alla seconda parte del film.
La pellicola intende perciò parlarci di come il patriarcato modelli i propri feticci attraverso forme di castrazione reali (Vincente che viene privato dei suoi organi genitali) e psicologiche. La donna plasmata da Robert non é altro che l’ideale perfetto di ciò che il femminile dovrebbe essere. Rappresenta l’identità femminile vista dagli occhi del patriarcato e delle sue gerarchie.
Per liberarsi del proprio padre padrone, Vincente\Vera lo soddisfa sfruttando il suo potenziale seduttivo così come la società patriarcale richiede. Usa il proprio corpo come metafora di liberazione. Robert é perciò l’oppressore, il patriarcato che trasforma Vincente in una donna nell’unico modo che conosce: attraverso la chirurgia. Tragico quanto affascinante il modo in cui l’autentico passaggio di Vincente da oppressore a oppresso avvenga attraverso la prevaricazione, l’abuso del maschile sul suo corpo femminile. Il corpo delle donne, ci dice Almodovar, non é solo carne ma terreno di battaglia e conquista. È prigione e libertà.