Ferzan Ozpetek è tornato, e l’ha fatto con un film profondamente radicato nel suo percorso cinematografico ormai ventennale. La Dea Fortuna, nuova fatica del regista turco a due anni di distanza dal suo film più metafisico, quel Napoli Velata che ha fatto strabuzzare gli occhi a tutti i suoi fan, si configura come un prodotto assolutamente ozpetekiano. Già nella trama, compaiono tutti gli elementi narrativi che hanno accompagnato il regista in tutte le sue pellicole: l’omosessualità, la crisi di coppia, la malattia e la morte.
Protagonisti della storia sono Arturo (Stefano Accorsi) e Alessandro (Edoardo Leo), coppia gay che convive da quindici anni, ma che ha l’impressione di non farcela più ad andare avanti insieme. Durante una festa a casa loro, però, arriva la bella Annamaria (Jasmine Trinca), ex compagna di Alessandro e donna che ha permesso loro di conoscersi. L’amica, che ha due bambini, Alessandro e Martina, deve fare alcune analisi all’ospedale, e ha per tanto deciso di affidare per pochi giorni la custodia dei figli alla coppia, non potendo contare su nessun altro. Arturo e Alessandro, si ritrovano così a gestire due bambini senza avere alcun tipo di esperienza, proprio nel momento più difficile della loro relazione. La crisi di nervi è dietro l’angolo per tutti i personaggi.
Non si può iniziare un qualsiasi discorso su La Dea Fortuna, senza analizzare, in prima istanza, la coppia protagonista. Arturo e Alessandro sono i classici opposti che si attraggono. Il primo è un sognatore, un intellettuale, traduttore di professione ma scrittore per ambizione, che ha rinunciato, a suo dire, all’insegnamento universitario per mantenere salda la relazione con il suo partner. Se Arturo è la mente, Alessandro è, senza ombra di dubbio, il braccio. Di professione idraulico, riesce sempre a fare colpo su tutti, uomini, donne e bambini, grazie al suo fascino intrinseco e quasi animalesco ma per nulla cavalcato dall’uomo. Più che essere semplicemente una coppia in crisi, i due danno l’impressione di voler essere tali. E’ vero, si sono traditi entrambi più volte, ma la cosa è vista da entrambi, anche se con filosofie diverse, come fisiologica e, in un certo qual modo, accettabile. La cosa che più manca ai due, paradossalmente, non è l’altro, ma il dialogo con l’altro. Non si dicono più le cose che ogni coppia non dovrebbe tenersi dentro, faticano persino a litigare. L’impressione generale è che vogliano loro stessi tirare la corda fino a spezzarla, che vogliano entrambi dichiararsi in crisi, senza mai, forse, davvero esserlo totalmente. Per usare un’immagine efficace adottata dal regista nel film, la loro relazione è come un tubetto di ketchup di per sé non vuoto, ma che viene prosciugato dalla mano di uno dei due partner. Arturo e Alessandro sono una coppia che ha ormai deciso di sabotarsi, di prosciugarsi, e che ha preso questa decisione, clamorosamente, senza nemmeno riuscire a discuterne.
I motivi per cui, dopo più di quindici anni insieme, i due dovrebbero discutere civilmente, sarebbero anche molti, ma di fatto essi non vengono mai indagati né dal regista né dai due protagonisti, che preferiscono nascondersi dietro l’etichetta di coppia in crisi, senza nemmeno provare a risolvere, da persone mature, i loro opposti punti di vista. L’abisso comportamentale tra i due lo vediamo sin dall’inizio de La Dea Fortuna, proprio nell’approccio con cui i due vivono la propria esistenza. Arturo, durante la festa di nozze di una coppia di amici, fa un video con il suo cellulare, filmato che noi vediamo direttamente sullo schermo. Curiosa è la precisione con cui va ad inquadrare invitati e pietanze del banchetto, espediente, anche questo del feticismo gastronomico, tipico dei film di Ozpetek. Arturo è così, non si accontenta di impressionare sul suo smartphone un momento felice, ma ne ricerca ogni dettaglio, anche il più insignificante. E anche nella vita ragiona così: dà un peso spesso persino esagerato ad ogni più piccola istanza, ingigantendola e facendola diventare protagonista. Alessandro, invece, è sempre l’ingenuo, il superficiale, quello che agisce d’istinto, senza pensare alle conseguenze che ciò che fa o dice hanno sul suo compagno. Di fronte ad un problema meramente comunicativo, dunque, la coppia, non riuscendo o non volendo dialogare per trovare una soluzione, finisce per sentirsi (o volersi sentire) in crisi.
Ritorna poi prepotentemente nella loro vita la figura di Annamaria. Uno degli aspetti che meglio riesce sempre al regista turco, è quello di presentarci certi personaggi in modo tutto sommato semplice, ma facendoci capire l’importanza che esso ha avuto negli anni precedenti a quelli narrati, per i protagonisti. Il personaggio di Jasmine Trinca rientra totalmente in questa categoria. Già solo il modo in cui i due compagni la salutano appena la vedono arrivare al matrimonio, poco dopo il solito incipit enigmatico tipico di Ozpetek, ci fa capire che quella donna non ha avuto un ruolo marginale nella vita di Arturo e Alessandro. Dopodiché il personaggio di Annamaria viene progressivamente indagato sempre più a fondo nel corso della pellicola. In un certo senso è l’unica figura del film che cresce, che ci dice sempre qualcosa in più di se stessa. Capiamo che, essendo stata la fidanzata di Alessandro, è inevitabilmente più legata e più intima con lui (ad esempio lo bacia per due volte, senza mai andare oltre l’abbraccio con Arturo). Capiamo che, lavorando nel santuario della dea Fortuna, a Palestrina, diventa quasi lei stessa l’incarnazione della dea, un’entità salvifica in qualche modo ultraterrena. Quando c’è Annamaria, o perlomeno la sua progenie, i due protagonisti e noi spettatori abbiamo l’impressione che davvero possa accadere qualsiasi cosa, che possa realizzarsi qualsiasi sogno, che si possa superare ogni problema. E’ l’amica che tutti vorremmo e di cui tutti avremmo bisogno, specialmente nei momenti bui, e, pur essendo la scrittura generale del film in certi casi superficiale, con il personaggio di Annamaria la sceneggiatura tocca livelli sublimi. Forse il merito è anche della straordinaria interprete che la incarna. Jasmine Trinca, specializzata ormai in personaggi così complessi, ha la capacità, più unica che rara, di sorridere con la bocca e di dire tutt’altro con gli occhi, estremamente sofferenti e travagliati. L’effetto che ottiene nello spettatore non è solo meraviglioso da un punto di vista meramente cinematografico, ma sconfina nell’amore verso il suo personaggio, come di rado capita in sala. Si esce dal cinema con l’impressione di essere innamorati di Annamaria.
Dal punto di vista della collocazione del film nell’opera generale di Ferzan Ozpetek, La Dea Fortuna è stato associato, per tematiche e poco più, a quello che, a livello unanime, è considerato il suo capolavoro, ovvero Le Fate Ignoranti. In realtà, a ben guardare, il film appare più legato a lavori come La finestra di fronte, di gran lunga il suo film più interessante a livello cinematografico. Questa assonanza è determinata principalmente dal modo in cui il regista affronta la tematica protagonista del film. E’ vero si parla di omosessualità, ma se nel film con Margherita Buy del 2001, questo tema diventava la colonna portante della pellicola, con tanto di scene piuttosto esplicite e poco consuete per l’epoca, in La Dea Fortuna essa diventa solo il pretesto per parlare di qualcosa di universale come la fine di un amore intenso, esattamente come accadeva nel film con Giovanna Mezzogiorno del 2003. Arturo e Alessandro non sono visti come semplice coppia gay, ma diventano l’archetipo di tutte le coppie in crisi. Se protagonista del film fosse stata una coppia eterosessuale, il messaggio non sarebbe cambiato più di tanto, e questa universalizzazione di una storia che universale non sembrava, anche conoscendo la poetica del regista nei suoi film precedenti, è senza ombra di dubbio una nota di merito per Ozpetek. In un certo senso, l’atmosfera che si respira guardando La Dea Fortuna ricorda molto i toni delle opere di Almodovar.
Detto questo, alcune scelte registiche non funzionano del tutto. Soprattutto risulta ossessiva, e spesso anche un po’ irritante, la tendenza del regista ad utilizzare primi piani lunghi e suggestivi anche in scene dove non ce ne sarebbe assolutamente bisogno. Vuole comunicare sensazioni ed emozioni con una sola immagine, ma questo espediente funziona in pochissimi casi ne La Dea Fortuna. Un discorso del genere ha senso praticamente solo con il primo piano su Arturo ubriaco, dove l’uomo fa un bilancio totale sulla sua vita di fronte ai bambini, ma per il resto risulta, ad occhi vagamente critici a livello cinematografico, un modo furbo di far passare scene di assoluta normalità, sia a livello tecnico sia a livello diegetico, come momenti di alto cinema d’autore, almeno agli occhi degli spettatori medi e occasionali.
Ottimo è invece il lavoro con il cast. Si è già detto di Jasmine Trinca e della sua indiscussa bravura, ma da sottolineare sono anche le prove dei due interpreti maschili, soprattutto quella di Edoardo Leo, davvero sorprendente. Straordinarie intuizioni sono infine, la scelta della piccola Sara Ciocca, perfetta in un ruolo complesso come quello di Martina, e l’inedita Barbara Alberti, che abbandona la penna per sconfinare dall’altra parte della macchina da presa, con ottimi risultati.
La Dea Fortuna è, insomma, un film fortemente collegato al modus operandi del suo demiurgo, sia nei suoi pregi sia nei suoi difetti. Un piacevole elogio al potere delle amicizie forti, più che semplice ritratto delle crisi.
Voto Autore: [usr 3,5]