Durante l’appena passato mese di aprile 2023, il catalogo di Sky ha vantato un’integrazione di indubbio interesse socio-divulgativo: si tratta della miniserie documentaria Junk – Armadi pieni. Il prodotto nasce da una collaborazione tra Will_Ita (Will Studio), autorità in ambito di informazione digitale, e Sky.
Per volere della piattaforma, oltre ad essere ovviamente disponibile per lo streaming su NowTv, la miniserie nella sua interezza è reperibile integralmente anche su YouTube. Dato il suo articolarsi in sole sei puntate della durata di circa venticinque minuti ciascuna, la miniserie si rivela un prodotto dalla fruizione particolarmente agevole e funzionale.
Scritti e diretti da Olmo Parenti, gli episodi poggiano sulla voce narrante dell’imprenditore Matteo Ward, prestato per l’occasione al documentarismo.
La trama della miniserie
L’ex modello ed attuale imprenditore green nell’ambito della moda Matteo Ward si muove nel corso di sei puntate fra svariati angoli del mondo accomunati dal fil rouge tematico delle conseguenze del fast fashion, la tendenza verso cui muove l’abbigliamento odierno globale influenzato dai brand da cui chiunque acquista quotidianamente.
Questo fenomeno, purtroppo, imposta un meccanismo di compravendita che si appoggia su pilastri forse non particolarmente noti ma indubbiamente poco etici, se non direttamente amorali: fra i tanti, l’utilizzo di materiali scarsamente e faticosamente riciclabili, l’accumularsi di grandi quantità di prodotto che difficilmente possono poi essere smaltite, lo sfruttamento di manodopera a bassissimo costo e costretta a lavorare in condizioni insalubri e malsane.
Nel corso delle sei puntate, Ward e la troupe che lo accompagna si muovono fra Cile, Ghana, Bangladesh, Indonesia, India e Italia (dedicando ad ogni ambientazione un episodio) per tratteggiare un ritratto onesto e quanto più possibile veritiero delle conseguenze dirette che derivano dal fast fashion.
Così facendo, il prodotto mostra al pubblico l’altro lato della medaglia costituita da tale fenomeno obbligandolo ad osservare realtà sconosciute, aberranti e sconvolgenti.
Dune di scarti di magazzino che percorrono decine di chilometri del deserto cileno, lavoratori e lavoratrici costretti ad operare in contesti di alta pericolosità e senza le protezioni adeguate, coltivatori di cotone obbligati a vedere i possedimenti dei loro avi svanire sotto ai loro occhi a causa di un’industria effimera che colpisce senza pietà in nome di una produttività vorticosa e certamente non necessaria.
Junk – Armadi pieni: il coraggio della fase autoriale determina l’efficacia di un messaggio diretto
Svariate sono le ragioni per cui Junk – Armadi pieni si configura come un prodotto estremamente efficace, realizzato con intelligenza e furbizia (nell’accezione meno malevola e negativa del termine).
Già da un punto di vista prettamente formale, la scelta di veicolare un messaggio così urgente declinandolo nella forma della miniserie con puntate peraltro così brevi rende il prodotto estremamente fruibile e dunque accessibile. E se non tutto il pubblico di telespettatori o abbonati ha il tempo necessario per un intero film di due o più ore, chiunque riesce a ricavarsi tempo a sufficienza in una giornata per una rapida pillola da poco più di venti minuti da sbocconcellare per appena sei volte, a propria discrezione.
In questo modo, intelligentemente, il messaggio veicolato da Ward & Co. riesce a raggiungere, già per il solo merito del format, una porzione di ascoltatori sicuramente più ampia di quanto un lungometraggio dello stesso stampo documentario avrebbe permesso.
La modalità comunicativa del film
Così, l’urgenza del messaggio riesce presumibilmente a diffondersi consapevolizzando più pubblico di quanto un prodotto dal formato differente sarebbe stato capace di fare. Volendosi addentrare però anche nei meriti del contenuto, Junk – Armadi pieni dimostra di possedere ulteriori punti a suo favore.
Se gli intenti riescono ad essere trasmessi in modo chiaro e lampante allo spettatore è anche grazie ad una certa schiettezza nella modalità comunicativa, che non si preoccupa di applicare nessun tipo di censura (neppure sui nomi dei brand colpevolizzati, come accade invece solitamente in questo tipo di contenuti).
La miniserie ha il coraggio di scegliere di non edulcorare linguaggi o riferimenti, ma senza giri di parole preferisce puntare il dito contro i colpevoli, quegli stessi brand di cui qualsiasi spettatore conosce il nome e da cui qualsiasi spettatore acquista a cadenza quotidiana.
Altra lode va sicuramente rivolta all’elevato impatto visivo delle immagini mostrate, che a loro modo contribuiscono tanto quanto la narrazione alla veicolazione di un messaggio che risulta così evidente e d’impatto.
Junk – Armadi pieni: quando la retorica è sempre dietro l’angolo
Volendo necessariamente trovare una pecca al lavoro realizzato da Will_Ita e Sky, si potrebbe rintracciarla nel costante rischio di caduta in un certo tipo di retorica vagamente banalizzante nei confronti della natura del prodotto stesso.
Questo pericolo, che emerge però solamente in certe porzioni e mai nella totalità delle singole puntate o del prodotto globalmente inteso, più che da un’inesperienza o una svista autoriale sembra essere in un certo qual modo incoraggiato dalla scelta nell’utilizzo di un voice over che talvolta accompagna le immagini in modo tanto virtuosistico da rischiare il volo pindarico. Non è un caso, infatti, se tale sporadico rischio lungi da palesarsi nelle porzioni di intervista o di comunicazione diretta, si manifesta unicamente in concomitanza con il voice over.
Complessivamente però, al netto di un rischio di retorica che permane sempre latente ma finisce per palesarsi di rado, il prodotto si dimostra ben ideato e riuscito. Junk – Armadi pieni, unendo una modalità documentaristica cruda, onesta e dal forte impatto visivo ad una forma agevole e facilmente fruibile, riesce indubbiamente a trasmettere il messaggio alla cui base esso stesso si colloca con l’urgenza, la serietà e la gravitas che merita e di cui necessita.