John Carpenter è stato un autore discordante ed estremo, destabilizzante e brillante, ignorato in patria e amatissimo nel resto del mondo. Che ha popolato il quotidiano di mostri e lacerato il sottile velo tra realtà e sogno.
John Carpenter: l’inizio di tutto
“In Francia sono un autore, in Germania un regista, in Gran Bretagna regista dell’orrore. Negli Usa un buono a nulla”: questa sua considerazione mette subito in luce la specialità di John Carpenter, ultimo regista di “genere” degli USA. “Ho iniziato a fare questo lavoro per girare film western. Però a quel tempo non se ne facevano più e, dopo “Halloween – la notte delle streghe”, sono stato confinato nel campo dell’horror e della fantascienza”.
Quell’Halloween, suo primo capolavoro, che segnò e settò una nuova linea di confine nel genere thriller/horror. Caposaldo di tutto quello che verrà dopo. Imitato dai registi di genere, creatore di una saga di successo e mal reboottato negli anni a venire. Come tutti i reboot dei suoi film. Talmente segnati in calce, per mano del maestro, e quindi “riconiscibilissimi”, da rendere ogni suo remake, come un falso d’autore.
Fondamentalmente pessimista, poco incline ai compromessi, John Carpenter è cresciuto nella cultura del rock e col mito di Howard Hawks, ma anche di Terence Fisher, di “La maschera di Frankenstein” e del film che, da bambino, lo fece innamorare del cinema, “Destinazione…Terra” (IT came from Outer Space, 1953) in 3D, di Jack Arnold.
Iniziò la sua carriera scrivendo, verso la metà degli anni settanta, una sceneggiatura per John Wayne intitolata “Blood River“. Purtroppo il film, che lo stesso Carpenter avrebbe dovuto dirigere, non si realizzò per la malattia incurabile che colse “Il Duca”. Negli anni a seguire lo omaggiò in “1997 – Fuga da New York”, creando il boss, vero e proprio re della città, “Il Duca di New York”.
La resistenza dell’uomo verso il male
John Carpenter ha esplorato la reazione e la resistenza dell’uomo comune nei confronti del male. I suoi temi privilegiati sono il rapporto tra male e religione, tra alieno e umano, la politica e la lotta per la sopravvivenza delle comunità emarginate. Il controllo degli individui connessi alla paranoia contemporanea, l’esplorazione di mondi paralleli fuori e dentro di noi.
Di tanto in tanto, come ad esempio in “1997 – Fuga da New York“ (1981) e in “Essi Vivono” (1988), è stato capace di far passare un cinema di guerriglia non omologato al suo “genere”. Di propagandare furtivamente un atto sovversivo e affrontare gli elementi contemporanei in modo più diretto di chiunque altro nell’odierno cinema commerciale.
“La Cosa” (1982), per molti il suo capolavoro, è il titolo che l’ha allontanato dai film ad alto budget e gli ha condizionato la carriera: “Ho fatto quello che dovevo fare e ne ho pagato lo scotto”.
Lo scotto di averci mostrato senza alcun velo la mutazione incontrollata e impazzita del corpo come ricettacolo di alterità, di aver affermato con la mascheratura di un horror estremo, che l’identità umana è appunto un enigma senza soluzione.
“L’Uomo Invisibile” potrebbe essere la forma della sua posizione all’interno dell’establishment: “The Shape” è anche il suo primo personaggio simbolico (Michael Myers) il ragazzo-killer che ritorna in qualità di Angelo vendicatore e di ombra malvagia, in un placido sobborgo del Midwest, durante la notte di Halloween.
Ad eccezione di “Darkstar“ e dei bei film per la televisione, tutta l’opera di John Carpenter, da Distretto 13 – Le Brigate della morte (1976) a The Ward – Il reparto (2010), è girata con obiettivi anamorfici, e il rapporto 1:2,35 è per lui un formato ideale per mettere in scena l’angoscia dello spazio, la sua penetrazione e la lotta per il suo controllo.
Un autore geniale che ha creato un genere
Un alieno a forma di pallone da spiaggia. Un vaso di verde energia maligna che rappresenta Satana insorgente (Il Signore del Male). Un banco di nebbia amorfa e strisciante che si materializza e scompare con la notte per avvolgere spettri lebbrosi e vendicativi (The Fog); Cadillac infernali, extraterrestri celati dietro maschere umane, un eroe con un occhio bendato che si aggira in post metropoli assediate. Bambini-mostri che leggono il pensiero e guidano la volontà degli adulti; vampiri che infestano il New Messico. Un magico tempio cinese nascosto nelle viscere di Chinatown, uno scrittore nelle fauci della follia.
Questo ed altro nel cinema di John Carpenter, un autore in grado di chiarire bene la differenza tra essere shooters e registi. Che ama descrivere traiettorie, andate e ritorni, a costo di farci tornare a volte al punto di partenza. Come Sam Neill e la sua automobile in “Il Seme della Follia” (1995), forse il suo metafilm più esplicito e terrorizzante.