Jan Švankmajer nasce a Praga il 4 Settembre del 1934. Autore di straordinaria forza innovativa, artista a tutto tondo, scenografo, pittore e regista. Viene ricordato come il pioniere della tecnica stop-motion e come maestro del cinema d’animazione.
Profondamente influenzato dal teatro delle marionette, si trascina questo marchio sin dall’infanzia, passione apotropaica che diventa uno dei suoi tanti tratti distintivi. Rappresentante di spicco del surrealismo ceco, riconosce come fonti letterarie l’influenza della figura del poeta maledetto francese, del romanticismo tedesco (Hoffman), Breton, L. Carroll, E. A. Poe, il Marchese De Sade e molti altri.
Pittoricamente, vede in De Chirico, Ernst, Magritte e nei più “anziani” Bosch e Arcimboldo una sconfinata fonte di ispirazione, che spesso torna nelle sue opere. Artisticamente, è sempre stato vicino all’avanguardia teatrale russa, alla scuola d’arte tedesca Bauhaus e, cinematograficamente, a registi del calibro di Eisenstein, Buñuel, Dalì, Fellini e Méliès. Tra quelli contemporanei ha lasciato la sua impronta in David Lynch (Velluto Blu; Mulholland Drive; Eraserhead), nei fratelli Quay, Terry Gilliam (I banditi del tempo; Paura e delirio a Las Vegas), Tim Burton (Nightmare Before Christmas) e molti altri.
Il mondo di Jan Švankmajer
Švankmajer non si può spiegare (come lo spieghi un genio?!). Si può solo ammirare nelle sue creazioni e imparare da esse. Il regista boemo continua quella tradizione di straordinari cineasti provenienti dall’Europa dell’Est. Il loro è un cinema solitamente quasi sempre sperimentale, geniale, malinconico, poetico e straordinariamente unico. Tarkovskij (Sacrificio), Kieślowski (Film Bianco, Film Rosso; La doppia vita di Veronica) Mihăileanu sono solo alcuni dei grandi nomi che hanno reso immensa la cinematografia del nostro secolo.
Partendo dall’analisi approfondita di quindici cortometraggi del regista e volgendo un occhio di riguardo verso il lungometraggio che ha contribuito a renderlo noto ad un pubblico internazionale, inizia l’immersione nel labirinto psichedelico, psicanalitico, folle, onirico e grottesco di una mente viscerale e piena.
L’ultimo trucco del signor Schwarzewald e del signor Edgar (1964); J. S. Bach: Fantasia in sol minore (1965) Et Cetera (1966)
Nei numeri del Signor S. e del Signor E. uno dei due si infila un pesce nella testa e dalla stessa ne esce una lisca (è la mente che si nutre, in questo caso), mentre dall’altro fuoriesce un violino e spartiti musicali. Dopo una serie di giochi e maestrìe, i due si staccano i pezzi a vicenda. Il corto si conclude con una stretta di mano reciproca (sono rimaste solo le braccia) e la visione ripetuta di uno scarafaggio (prima vivo, ora morto) a “pancia all’aria”. Il richiamo alle Metamorfosi di Kafka è più che evidente!
Nella Fantasia in sol minore si assiste ad una rapsodia allucinogena in bianco e nero. Tra Kafka, Bach e virtuosismi di varie tecniche e strumenti di pura animazione, un uomo sale le scale, si siede al piano (la cui tastiera è ricoperta da una schiera di mele), ne addenta una e inizia a suonare. Sembra un racconto senza nessi logici, eppure al terzo corto Et Cetera si giunge presto alla consapevolezza che comprensione e godimento non devono per forza andare d’accordo tra loro e, anche senza intersecarsi, possono produrre comunque un magnifico effetto, una piacevole sensazione.
Un ominide di cartone, disegnato come una marionetta simile alla statura di una scimmia, passa da una sedia all’altra, indossa delle ali e vola. Una figura di carta colorata frusta un coccodrillo che balla, mentre dipinti di uomini del ‘700 a cavallo o in battaglia si alternano alle scritte in diversi caratteri e formati “et cetera”.
La fabbrica di bare (1966); Historia Naturae Suite (1967) e L’appartamento (1968)
Torna la passione per i burattini. Due marionette litigano per un criceto e cadono in un loop di follia, violenza, umorismo nero e morte. Jan Švankmajer aveva l’abitudine di fare uso di teatrini e burattini quando sentiva la necessità di affrontare temi scomodi e paure inconsce (la fine di tutto). Lo fa con un’ironia dissacrante e divertente.
Nell’Historia Naturae la passione per l’Arcimboldo emerge con tutta la sua forza così come la tematica della fame atavica. Il cibo è onnipresente nelle sue opere e spesso prende vita, come un vero e proprio protagonista attivo e partecipe, solitamente avido. Crostacei vivi entrano ed escono dai cassetti di un mobile, come se giocassero a nascondino, fino a quando si vede la bocca di un uomo, in primo piano, che li mangia. La scena si ripete sempre, anche con gli insetti, i rettili, pennuti (persino l’armadillo) fino ad arrivare alla scimmia e agli umani.
L’appartamento è una casa un po’ dispettosa. Si fa beffe di un poveruomo che ci entra. Ricorda in maniera burlona quello che succedeva con Cocteau ne il sangue di un poeta.
Il giardino (1968); una tranquilla settimana nella casa (1969) e L’ossario (1970)
Il giardino della villa di un funzionario è recintato da uomini vivi che si tengono per mano! Josef, il funzionario malvagio, parla sempre, mentre Frank, l’ospite succube, è sconvolto. Finirà anche lui come parte del recinto, fermo e immobile, mentre Josef gli pettina i capelli. L’allusione al regime cecoslovacco era chiara e il corto, a suo tempo, fu vietato. È perturbante la disinvoltura con cui Jan Švankmajer mostri situazioni grottesche e inquietanti come qualcosa di perfettamente normale. La scena finale mette in risalto la malata seduzione di chi subisce il regime o in generale una situazione di manipolazione e controllo.
Anche in una tranquilla settimana nella casa si viene trasportati in una condizione angosciante e minacciosa. Il movimento della camera è rapido, convulso e agitato. Siamo a ridosso del ’68 (Primavera di Praga). L’esplosione finale del corto conferma gli stati d’animo e gli avvenimenti del periodo storico del tempo.
Una lumachina procede lentamente nell’occhio vuoto di un teschio. Le immagini dell’ossario scorrono velocemente una dietro l’altra come gli scatti di una macchina fotografica e la voce di una donna li accompagna in sottofondo.
Il diario di Leonardo ’72 (1972); Il castello di Otranto (1977) e La caduta della casa Usher (1981)
Probabilmente uno dei capolavori assoluti tra i corti di Jan Švankmajer. Il diario di Leonardo rende giustizia alla genialità del nome a cui è dedicato. Le varie forme dell’umano e delle sue innumerevoli creazioni vengono interpretate, capite e raccontate attraverso l’uomo che aveva colto la meraviglia del genere umano e delle sue potenzialità, nella più incredibile totalità: Leonardo da Vinci, il genio per eccellenza!
Continua la rassegna sull’originale estrosità del regista boemo con Il castello di Otranto, un documentario animato costruito nello stile dell’arte gotica. Gli eventi realmente accaduti in un castello della Repubblica Ceca vengono messi a confronto con quelli della novella di Walpole.
Gli avvenimenti ne La caduta della casa Usher, spettrali e sinistri, prendono forma con l’effetto plastilina. Non ci sono carte, cartoni o personaggi in carne ed ossa, ma solo oggetti, luoghi e natura in movimento. Anche qui la musica è perfettamente in sintonia con le sensazioni percepite.
Dimensioni di un dialogo (1982) e Oscurità Luce Oscurità (1989)
In Dimensioni di un dialogo torna nuovamente l’Arcimboldo e anche il tema del mangiare, del triturare. Tutto è cibo e ogni cosa nasce per esserlo. Qui diventa motore della narrazione in stile Rabelais, alla Gargantua e Pantagruel. Il corto si suddivide in tre parti. La prima si concentra sulla poltiglia di cibo che si trasforma in Arcimboldo, dal cui vomito ne esce un altro. L’azione si ripete ciclicamente: i due Arcimboldi si mangiano e vomitano a vicenda, fino a diventare due busti umani.
Da qui si entra nella seconda parte del corto, in cui un uomo e una donna si baciano e toccandosi, accarezzandosi, si evolvono in una sola cosa, un tutt’uno. Fanno l’amore, uniscono i loro corpi come in una danza tra due masse di materia d’argilla. Poi la scissione e l’incomunicabilità, fino a distruggersi reciprocamente.
Nella terza parte c’è uno scambio ripetuto e continuato di materiali tra due volti di uomini. L’uno di fronte all’altro dalle cui bocche escono matite, lingue, lacci, scarpe, coltelli, formaggi spalmabili, pane, di tutto. Quella rappresentata è un’altra forma di comunicazione.
In Oscurità Luce Oscurità viene messa in scena la creazione dell’uomo e il riferimento biblico “e luce fu”. In una piccola stanza l’uomo si plasma a partire dalle mani, poi occhi e così via. Simpatico l’ingresso del cervello (che arriva dopo) e quello irruento del pene, che terrorizza le altre parti pronte a difendersi da questo “nuovo arrivato” che bussa alla porta della piccola stanza. L’uomo è plasmato, completo, ma impedito a muoversi. La stanza è minuscola. Il miracolo della creazione si scontra con un libero arbitrio che non esiste. E luce non fu più.
La morte dello Stalinismo in Boemia (1990)
Veniamo al mondo con il pianto, con un urlo, un grido. Esistiamo! Il busto di Stalin viene portato in sala operatoria. Gli aprono in due il cervello ed esce un altro busto, con tanto di cordone ombelicale. Il medico gli dà uno schiaffo per farlo piangere e respirare. È Chruščëv.
Si ripercorre velocemente la storia della Repubblica Ceca. Dopo contadini in serie creati con l’argilla e fatti impiccare si arriva a Brežnev. I mattarelli cadono giù per le scale, i colpi di proiettile bucano i muri e una Kalinka russa accompagna un teschio, che irrompe mangiando la carta che ritrae le immagini dei politici sopracitati.
Arriva il socialismo. Anche il busto di Stalin viene pittato con i colori della bandiera della nuova nazione, la Repubblica Ceca. Viene aperto di nuovo e dalle sue viscere il pianto di un bambino.
Alice (1988)
Il lungometraggio che ha reso Jan Švankmajer celebre in tutto il mondo. Dimenticate l’Alice di W. Disney o quella di Tim Burton. Gli unici tratti comuni sono i colori (occhi e capelli). Le creature del film sono tutt’altro che graziose. Sembrano essere uscite direttamente dai quadri di Bosch. Quello che vive Alice è un vero e proprio incubo in cui “combatte” sola contro esseri minacciosi, nel loro piccolo. Il Bianconiglio scappa da lei e fa di tutto per ridurla in piccole dimensioni, per catturarla o colpirla. È certamente diffidente.
La famosa scena del thè con il cappellaio matto è sfiancante. Si ripete più e più volte la medesima azione, fino alla presa di coscienza di Alice, che saprà uscirne. Tutto il film è autodeterminazione continua. Ad un certo punto lei trova dei calzini di altri bambini (si lascia intendere che già altri siano passati di lì prima di lei e che probabilmente siano morti o prigionieri di quell’incubo). Alice sta per “perdere” i suoi calzini, ma riesce a recuperarli con forza e determinazione. Quando, verso il finale, incontra le carte animate della Regina e del Re e rischia di perdere la testa, riuscirà a risvegliarsi dal brutto sogno.
Conclusioni
Artista e cineasta, il boemo Jan Švankmajer è uno dei maestri riconosciuti dalla storia del cinema d’animazione (e non solo). Autore di cortometraggi e lungometraggi, realizzati nell’arco di oltre quarant’anni. Questo fantasmagorico animatore di oggetti e bardo di storie ha saputo creare un immaginario di surrealistica quotidianità. L’ossessione cannibalica per il cibo, la vocazione al collezionismo da “camera della meraviglie” e “gabinetto delle curiosità” cinquecentesca, un erotismo e un voyeurismo bizzarri si mescolano indissolubilmente, dando vita a un cinema dell’inconscio e della metamorfosi.