J’ai tué ma mère ( I Killed My Mother, 2009 ) é l’esordio limpidissimo e toccante dell‘enfant prodige del cinema canadese Xavier Dolan. Intimo, imperfetto ma pregno di sensibile umanità, il film é un ritratto autentico e sincero dell’adolescenza dipinta nel suo compiersi.
J’ai tué ma mère – Trama del film:
Hubert Minel (Xavier Dolan) non ama ma non può far a meno d’amare sua madre. Dai maglioncini infeltriti, il frizzante gusto kitsch e dal carattere eccentrico, é lei la preda della rabbia sovversiva ed adolescenziale di Hubert. Il loro rapporto conflittuale – osservato dall’occhio empatico di Dolan – segnerà profondamente l’adolescenza del ragazzo.
J’ai tué ma mère – Recensione:
Drammi adolescenziali quali il lungometraggio di Catherine Hardwicke Thirteen – 13 anni, dai distanti lidi dell’età adulta tentano di rimarginare, di intessere dialoghi con l’acerba e passata adolescenza. Dolan – invece – autore della sceneggiatura del film alla giovane età di sedici anni, ci dipinge la delicatissima età dell’incertezza dalle sue viscere. Quella che il regista poeticamente trasporta sul grande schermo é – potremmo osare dire – l’esperienza diretta, contemporaneamente vissuta. J’ai tué ma mère potrebbe essere un video-diario, un affresco limpido di un’adolescenza acerba e conflittuale. Dolan si rappresenta in medias res con urgenza e bellezza.
Il lungometraggio d’esordio di Xavier Dolan condensa nella sua ontologia quelli che sono le tematiche proprie del regista: i rapporti famigliari travagliati, la giovinezza con particolare attenzione all’età transitoria dell’adolescenza, l’esperienza dell’omosessualità e della diversità.
Sin dal preludio il motivo della complessità del rapporto madre – figlio ( dai tratti quasi edipici) viene esplicitato: “si ama la propria madre quasi senza saperlo, e non ci si accorge della profondità delle radici di questo amore se non al momento della separazione definitiva“. Una frase di Guy De Maupassant che sintetizza cristallinamente i fotogrammi che seguiranno, il percorso emotivo dove Dolan ci accompagna materno e paterno al contempo.
Ossimorico e contraddittorio, il leit-motiv dell’odi et amo é poi ricorrente anche nel titolo scioccante ed esibizionista del lungometraggio. La dinamica vittima – carnefice é poi analizzata con perizia e lucidità da Dolan che riesce a tratteggiare con nitidezza tali sfumature rendendo il complesso edipico tridimensionale e distante da ogni potenziale banalizzazione.
Odi et amo in J’ai tué ma mère:
“…ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù” grida Hubert alla genitrice. D’altro canto, nonostante le difficoltà e le frizioni di cui sopra, il livore reciproco cela anche un profondo amore l’uno per l’altro. Emblematica é la sequenza in cui Hubert – sotto effetto di stupefacenti – si avvicina alla madre e – tenendole teneramente le mani – le confessa d’amarla aggiungendo prontamente: “Te lo dico così, perché non dimentichi”, insinuando che forse non potrà dirglielo ancora, o meglio ricordarglielo, nei momenti sobri in cui è sopraffatto dal risentimento. Diviene evidente come, nei momenti in cui il freno censorio viene meno, l’affetto reciproco prevalga.
Anche a Chantal ( Anne Dorval ), la madre, viene dato modo di rispondere a questa tenerezza di cui abbiamo parlato. In un momento particolarmente toccante del film assistiamo ad uno scambio di battute tra i due. Hubert grida: “Cosa faresti se morissi domani?”. La madre, con voce rotta dal pianto, gli risponde, guardandolo allontanarsi: “Morirei domani”.
Uno scambio che, con eloquenza, sintetizza il frastagliato e complesso rapporto tra i due. Una relazione per cui il regista prova tenerezza e compassione tracciando empaticamente la figura di Chantal – madre single alle prese con un figlio irrequieto e del reazionario Hubert.
Un adolescenza in bilico tra estetica da videoclip e poesia:
A fronte di una profonda maturità tematica ed artistica, l’inesperienza e la voglia di sperimentazione di Dolan si avvertono nel suo stile mutevole e scostante. J’ai tué ma mère infatti alterna scene da video diario di youtubiana memoria ( interpreti della coscienza di Hubert con tanto di fotografia in bianco e nero) ad inquadrature che occhieggiano a certo cinema camp, specialmente Almòdovar. Accelerazioni e compressioni temporali, poi, contribuiscono a generare una sensazione latente di sperimentazione ancora incerta ma che, vedremo con il tempo, sboccerà nei lavori più maturi del regista.
Anche la mescolanza di toni é talvolta stridente ma, nel suo complessivo, il lungometraggio confezionato da Xavier Dolan, é un prezioso contributo al filone di cinema adolescenziale che non smarrisce mai il proprio obbiettivo. Persino quando viene introdotta la seconda coppia che alberga nel film, il duale rapporto madre – figlio non viene messo in ombra.
Anzi, Dolan é magistrale nel tenere in equilibrio i due aspetti. Mostrandoci un rapporto romantico sano e armonico, la coppia edipica ne emerge quanto ancora più enfatizzata e problematizzata scongiurando la possibilità di renderlo tema secondario.
J’ai tué ma mère fa poi sfoggio di segmenti extra diegetici surreali che sono assai efficaci nell’esprimere l’interiorità di Hubert. Se la rabbia viene espressa attraverso l’esplosione di una vetrina, la madre nelle vesti della Vergine Maria piangente sangue é perfetta sintesi del senso di colpa. Dolan realizza tali espedienti registici con tale naturalezza da non essere mai banale ma sempre assolutamente espressivo, denso ed é forse questo uno dei più grandi meriti del suo cinema.
Pop, nouvellevaguiano, camp e sempre autentico. L’espressività delle inquadrature é poi notevole. Soventemente decentrati, spesso caratterizzati da campi-controcampi non combacianti, i personaggi ci comunicano la loro profonda solitudine e lontananza attraverso tali intimiste diapositive. Quasi che la realtà fosse pregna della soggettività di Hubert e con i suoi occhi la filtrasse.
Il ruolo dell’arte é infine nodale nel lungometraggio di Xavier Dolan e, a suffragare questa tesi, é la splendida scena di action painting in cui Hubert e il suo ragazzo si abbandonano ad una liberatoria unione sessuale dopo aver dipinto una stanza attraverso la tecnica del dripping. Sequenza pop, eccitata, condensa in sé tutte le caratteristiche peculiari del cinema del regista a livello formale. Slow motion, time lapse, la centralità del rapporto umano – ambiente, la dirompente musica pop, la trasfigurazione delle pulsioni di Hubert.
In conclusione, tralasciando il titolo, J’ai tué ma mère non é Psycho. Il matricidio avviene, è vero, ma si consuma solamente a livello pulsionale ed astratto. Forse Freud sarebbe orgoglioso di questo delitto emancipatorio con cambio di ruoli, chissà.