Una donna seducente e perduta, un mondo sordito e crudele. E il viso di Louise Brooke, entrato a far parte dei nostri sogni. Dal dramma di Wedekind, Il vaso di Pandora, il capolavoro espressionista di Georg Wilhelm Pabst.
Il vaso di Pandora tratto dal dramma di Wekekind
Tratto dai due drammi teatrali gemelli di Frank Wedekind, Lo spirito della terra e Il vaso di Pandora, il film, secondo capitolo di una trilogia sessuale che comprende anche Crisi (1928) e Il diario di una donna perduta (1929), è una delle rare opere cinematografiche che riassumono in sé il senso stesso della cultura di un’epoca.
Pabst modifica infatti non nella forma ma nella sostanza il dittico di Wedekind, emblema di un furore anti-borghese e prototipo del dramma psicologico d’origine freudiana, trasformando la mantide Lulù, che con la propria sensualità distrugge ogni uomo che incontra, in un personaggio molto più ambiguo, sprovvisto di forza demoniaca, ma a sua volta vittima del suo spirito libero ed anarchico.
Il vaso di Pandora recensione
E’ perciò Lulù stessa Il vaso di Pandora, conturbante emblema d’erotismo, ingenua ballerina da music hall, simbolo di un femminismo ante litteram, ma anche specchio di una melodrammatica fragilità destinata a morire per mano di Jack lo Squartatore.
Conturbante, seducente, insondabile: la Lulù di Louise Brooke è il simbolo di una bisessualità modernissima e in anticipo sui tempi. Talmente in anticipo che in alcuni paesi Il vaso di Pandora subì dei tagli per l’intervento della censura (siamo pur sempre negli Anni Venti), come in Francia, dove il personaggio della contessa Geschwitz, che nel film è una lesbica che corteggia Lulù, venne trasformato in un’amica della protagonista, mentre l’intera scena con Jack lo Squartatore venne tagliata.
Anche dal punto di vista stilistico, il regista abbina due stili contrapposti. Nella prima parte, infatti, prevale un impressionismo descrittivo, che culmina in una sequenza, quella in cui una Lulù mascherata da farfalla si esibisce al trapezio, che è al contempo un omaggio alle radici del teatro e un simbolo stesso del personaggio, incerta ed affascinante equilibrista della vita.
Nella seconda parte, invece, si fa più evidente lo stile espressionista, prima attraverso deformazioni ottiche e giochi di riflessi nella scena della festa di nozze, poi nella melodrammatica sequenza finale, in cui anche Jack lo Squartatore, che nel dramma originario non è altro che un machiettistico strumento di morte, assume una valenza patetica e uno spessore dolorosamente umano. Ma Lulù conserva una sua imprevista modernità soprattutto grazie alla presenza magica di Louise Brooks, anti-star dall’ovale perfetto e dal caschetto nero tipico del jazz raccontato da Scott Fitzgerald, entrando a far parte degli annuali della moda.
Macchietta americana aliena dell’intellettualismo germanico degli anni Venti, Brooks rimane per tutto il film un emblema di incontamita purezza, furbizia e fragilità, gioia e tristezza che si fa perno del film in ogni singola inquadratura.
Il vaso di Pandora è un Capolavoro assoluto, figlio del Cinema muto, nato agli albori della Settima Arte, che Pabst dirige con grandissima maestria: dalle sfavillanti scenografie, i luminosissimi primi piani che faranno scuola, una fotografia che rasenta la perfezione nella sua complessa vivacità, fino all’utilizzo di un talentuoso montaggio dando sempre una sensazione di continuità, lasciando a Lulù il fascino di un mistero da ammirare ma che è impossibile svelare.
Il vaso di Pandora interpreti e personaggi
- Louise Brooks: Lulù
- Fritz Kortner: dott. Ludwig Schön
- Franz Lederer: Alwa Schön
- Carl Goetz: Schigolch
- Krafft-Raschig: Rodrigo Quast
- Alice Roberts: contessa Anna Geschwitz
- Daisy d’Ora: Charlotte Marie Adelaide
- Gustav Diesel: Jack lo squartatore
- Michael v. Newlinsky: marchese Casti-Piani
- Siegfried Arno: istruttore