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Il signor Diavolo

«I fatti possono essere fuorvianti, le chiacchiere vere o false possono essere rivelatrici», affermava Hans Landa in Bastardi senza gloria (2009) di Quentin Tarantino. E questo principio lo si può facilmente adattare a Il signor Diavolo, il nuovo lavoro di Pupi Avati, così come agli altri gotici padani. Il regista ottantenne torna nella provincia ferrarese, ai luoghi e alle atmosfere di opere precedenti come La casa dalle finestre che ridono (1976), e vi ambienta la trasposizione del suo recente romanzo omonimo. Siamo nei primi anni Cinquanta: il governo democristiano invia in un paesello del nord un funzionario per stabilire quanto sia coinvolta la chiesa in un caso di omicidio in cui si fa riferimento al demonio. Nello specifico, il giovanissimo Carlo avrebbe ucciso il coetaneo Emilio perché convinto che dietro le sembianze del ragazzo si nascondesse niente meno che il demonio. Una storia torbida in cui spicca la madre della vittima, ricca veneziana che minaccia le imminenti elezioni nazionali con uno scandalo.

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Infatti, secondo la signora, l’atto criminoso nei confronti del figlio sarebbe stato incoraggiato dal sacrestano della chiesetta locale, un anziano superstizioso e alquanto avvezzo a catechizzare i ragazzini della zona sulla presenza del Male nel mondo. Il funzionario, un mite trentenne fino a quel momento addetto all’archivio, viene mandato dal ministero proprio per accertarsi che tali discorsi non abbiano nulla a che fare col delitto. E mentre questi compie il viaggio in treno noi veniamo a sapere parte della storia già attraverso il verbale degli interrogatori fatti dal giudice istruttore in prigione. L’indagato elenca gli avvenimenti che porteranno al tragico fatto e nel seguire la sua narrazione, tanto essa è coinvolgente e dettagliata, ci si dimentica che quella è solamente la sua versione. Un punto di vista. Come ce ne sono molti e diversi per ogni persona con cui parlerà il funzionario. Una continua e frustrante procrastinazione della verità.

Il signor Diavolo

Avati ci riporta nei luoghi che lo hanno reso autore di culto e lo fa sfidando l’industria cinematografica nostrana sul terreno del genere, con quell’horror che in Italia si produce solo fra indipendenti e che non trova alcun canale distributivo per arrivare sugli schermi. Inoltre, il suo è un ritorno al passato attraverso elementi che hanno profondamente segnato la sua infanzia, soprattutto legati alla fede cattolica com’era concepita nella campagna degli anni precedenti la grande urbanizzazione. Il signor Diavolo prende forma così attraverso una precisa ricostruzione storica che è però soprattutto una memorialistica emotiva del regista bolognese, in effetti un compendio dei ricordi più significativi di un’intera generazione. Le fionde, le biciclette, le prime esperienze erotiche. È tutto molto famigliare, pur essendo lontanissimo. Le immagini stesse vibrano di una realtà che va ben oltre le vicende riportate, il che fa paradosso se si considera l’impostazione del film come se questo fosse ispirato a eventi di cronaca.

Il signor Diavolo

È forse questo il cinema-cinema di cui parli Avati in una bella intervista? Ritrovare un contatto più diretto con la messa in scena? Mettere da parte la forma in se stessa, la scrittura come struttura? Difficile stabilirlo. Possiamo però apprezzare la fluidità delle sequenze, la noncuranza con cui si baipassano le più scolastiche regole di sceneggiatura per lasciarsi andare all’unica che davvero conta nei film di questo tipo: la suspense. Intenzione dichiarata del regista, per l’appunto, era anche superare i paletti della produzione televisiva, riappropriandosi del potere della suggestione. Certo, il comparto tecnico del film, dal doppiaggio dei personaggi principali all’utilizzo del fuorifuoco, è talvolta approssimativo e incauto, ma sarebbe forse giusto nei confronti di un autore di tale spessore accettare che a quell’età si sente il bisogno di tornare alla semplicità degli esordi, alla rapidità della creazione imprudente. Vien da pensare all’ultimo Clint Eastwood… Allora, se certi giovani sono senz’anima, viva i vecchi!

Voto Autore: [usr 4,0]

Davide Pirovano
Davide Pirovano
Mi piacciono le arti visive contemporanee e mi piace pensarle in un’ottica unificatrice. Non so mai scegliere, ma prediligo le immagini e storie di Gaspar Noé, David Fincher, Yorgos Lanthimos e Xavier Dolan.

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