Thriller politico che galoppa a briglia freneticamente sciolta verso un’iperbolica resa dei conti spiazzante e disperante: così si presenta il Regno, anno 2018, diretto da Rodrigo Sorogoyan, talentuosissimo regista spagnolo, che ha recentemente meravigliato e soddisfatto la scorsa biennale cinematografica di Venezia con il bellissimo Madre, e che con questa precedente fatica si è portato a casa sette premi Goya 2019 tra cui miglior regia, miglior attore protagonista e miglior sceneggiatura originale, arrivando tra i finalisti al Premio Lux.
Al centro del racconto la classe politica spagnola con i suoi dirigenti in pieno uso ed abuso di potere: capi di sezioni, mandanti, portaborse, imprenditori, factotum, segretari, presidenti, amici, amici di amici, tutti uniti nel Regno, cioè nel partito, forza e compagine sociale che nell’ordinaria amministrazione qui evocata, delinque indisturbata per proteggere se stessa, e lo fa nelle forme ad essa più consone. Truffa, circonduce, specula, corrompe, mente, garantendo ai suoi privilegiati adepti vite da sogno, nel lusso, nel tutto consentito presto, bene e sempre, mentre l’interesse collettivo dorme e soffre sotto l’anonimo quotidiano, raggirato e frodato del proprio bisogno e della propria fiducia.
Sono i tempi dei pranzi sfarzosi, delle cene regalate, delle vacanze pagate, delle barche senza prezzo, dei regali non richiesti e dei primi smartphone con cui riprendere la bella vita trafugata alla realtà.
Il sistema di questo vizioso meccanismo, è oliato, vanta storici precedenti e funziona: regge e fa reggere tutto e tutti, in un’omertà collettiva composta di più uomini e meno donne che sanno e che tacciono; quando “il gioco del silenzio” si rompe, le teste cadono, senza se e senza ma, quasi non fossero mai state unite, né importanti vicendevolmente, come pedine da gioco o poco più; e crollano con un’opportunistica, spietata, inaccettabile letalità.
Così accade a Manu, ossia Manuel Porta Lopez (Antonio de la Torre), vicesegretario del partito regionale, ambizioso, testardo, superbo come pochi, abituato a disobbedire per inseguire il risultato, capace di tener testa, sedurre e preoccupare insieme le grandi teste della capitale Madrid: stanco di prendere ordini, l’uomo è pronto per il parlamento nazionale, ma qualcuno che ha smesso di ragionare come lui e come gli altri sudditi del Regno, parla, e il paradiso di intoccabili trema.
Pur di non sgretolarsi il partito fa muro contro di lui e lo immola come capro espiatorio, scaricandogli addosso tutta le responsabilità pur collettive dell’ operato storicamente illecito; Manu è destinato ad andare al macello, solo.
Si scatena lo sciacallaggio stampa, si scoprono mesi se non anni di indagini da parte della Guardia Civil, piovono perquisizioni, arresto, libertà vigilata e spuntano intercettazioni compromettenti che alludono esplicitamente ai metodi poco ortodossi utilizzati dall’uomo per ottenere gli scopi partitici ben poco pubblici e troppo privati.
Il Regno compatto come una testuggine lo isola, negandogli ogni tipo di appoggio, e l’uomo inizia una corsa-rincorsa per salvare faccia e carriera, schivare morti sospette e tradimenti incrociati, proteggere la propria famiglia, trascinando nel fango con sé tutto il marcio presente, passato e futuro e tutti coloro che di quel marcio si sono cibati, in una spirale vorticosa e serratissima in cui diventa sempre più difficile trovare scampo.
Adrenalinico, strutturato con ritmi fulminanti, dotato di più climax che scaricano elettricità nell’atmosfera, nei personaggi e nell’attenzione dello spettatore, con un finale, concettualmente fin troppo schierato, ma lontanissimo dalla prevedibilità, Sorogoyan sfoggia le sue qualità di narratore della tensione, costantemente in allarme senza anticiparlo, attentissimo al montaggio, capace di mozzare il fiato scegliendo un piano sequenza, di fingere di recuperarlo con le riprese di una macchina a spalla e di azzerarlo ancora spostando e accavallando continuamente il piano d’ascolto.
Così si figura il tour de force cui Manu è sottoposto, mela marcia per l’opinione pubblica, rinnegato dai suoi cari amici di ruberie, pericolo per i sudditi del Regno in quanto fonte potenziale di scomodissime verità. E’ un nemico pubblico; è più nemici pubblici; il martire della seconda ondata di tangentopoli contemporanea che porterà alla nascita di tanti Robespierre nel giro di pochi insospettabili anni; la parabola del politico corrotto disposto a tutto pur di non cadere da solo, come se la percezione fosse che più collettivo è il reato meno grave esso risulta.
Alla base la concezione di una professione nobile che ha smesso di essere arte, non conduce più e non rappresenta: la politica non conosce più statisti, si autoriferisce e si auto premia a fronte di inadempienze via via sempre più intollerabili, blandite con la frase “così si è sempre fatto”.
E Sorogoyan, lungi da retro pensieri populisiti, insinua il dubbio che il marcio di fatto sia ovunque, che la piccola mentalità, a riflesso della grande, sia quella di guadagnare sulla debolezza e sull’incoscienza dell’altro: così possiamo intascare un resto eccessivo al bar senza dir nulla al cameriere; oppure possiamo prendercela con la vittima della gogna mediatica insultandola pubblicamente con ciò che si è sentito dire tanto nessuna rettifica coprirà i danni morali; o ancora, possiamo manipolare una confessione mediatica per fare più velocemente carriera tradendo la fiducia di una persona che ha sbagliato, ma era nostra amica.
Dimostra obliquamente Sorogoyan, che anteporre il proprio all’altrui interesse è fatto di banale quotidianità, il più delle volte inconsapevole,dunque maggiormente rischioso.
Manu è un delinquente in giacca e cravatta, mai pentito, scaltro e ben privo di scrupoli: eppure, se diventi l’ultimo dei cattivi, dai cattivi stessi perseguitato, noi che guardiamo, invochiamo la tua salvezza, sfoggiamo un’improvvisa misericordia dalla memoria corta, vogliamo che in qualche modo tu risalga la china anche se non lo meriteresti e che la tua vendetta per tutti gli altri correi, più colpevoli di te, si compia; ci dimentichiamo delle colpe del protagonista, ce lo dimentichiamo perché è parte di un sistema più grande e più deleterio che sembra fare a meno della vittima sacrificale con impunito, feroce disinteresse; ce lo dimentichiamo perché la narrazione lascia intravedere una collettività generale in cui spesso si preferiscono le scorciatoie alle vie ordinarie, la furbizia paga e l’accontentarsi non è contemplato; ce lo dimentichiamo perché intelligentemente gran parte del lato oscuro del far politica di Manu, nel film è taciuto: si suggerisce, non si denuncia.
Così del malvagio eroe resta l’esempio, il modello di comportamento umano, non una cronaca di giornale; nella sua storia, riguardante tra l’altro un partito di cui non si esplicita mai il colore, a sottolineare che ciò di cui si tratta vale per qualunque orientamento, ognuno può ritrovare chi o cosa Manu rappresenti: un’epoca, tante epoche, un sistema specifico o generale, certi nomi e certi cognomi, un’attitudine universale dello stare al mondo.
Alterato e lucido in questa prova di forza e sforzo recitativo, spicca il protagonista Antonio de la Torre, di gesso e febbre la sua presenza, un Amleto al quinto atto, ipersaturo e forsennato, prossimo al cortocircuito ma pronto alla vendetta, senza null’altro da perdere.
Mentre precipitiamo nella sua spericolata risalita senza rete, ci domandiamo chi vincerà e se veramente, il vincitore di un tale contesto possa dirsi tale.