Il cinema, quale forma d’arte in continuo rinnovamento, è capace, tramite la finzione, di raccontare il nostro presente, riflettere sui meccanismi che ci hanno portato ad essere quelli che siamo e dare corpo e voce a quelle spinte che premono per un cambiamento o un cambio di passo nella società. È sempre stato così, sin dagli inizi, con le prime vedute dei Lumière, è stato così durante e subito dopo le guerre e sicuramente, dato il periodo che stiamo vivendo, sarà così nel prossimo futuro, con film che (speriamo) saranno capaci di raccontare questo momento. Il processo ai Chicago 7 di Aaron Sorkin è un film che parla di una vicenda avvenuta più di cinquant’anni fa, fissata quindi in un preciso periodo storico che, inevitabilmente, non è più quello di oggi. Tuttavia è un film incredibilmente attuale nel raccontare la società odierna attraverso figure del passato e questo colpisce ancora di più se consideriamo il periodo in cui film è stato rilasciato.
Al di là di tale aspetto, questo film sorprende già dai primi minuti. Dopo un montaggio frenetico che ci presenta i vari personaggi coinvolti nella vicenda (i cosiddetti Chicago Seven) nonché la preparazione a ciò che stanno per fare – parallelamente al crescendo della curiosità di chi guarda di vedere come si concretizzerà il loro piano – ecco che la narrazione fa un salto in avanti e ci porta direttamente al momento che dà titolo al film: il processo. Tutto ciò che è successo nel mezzo lo spettatore non lo sa ancora. Col procedere del tempo i vari pezzi del puzzle colmeranno quel vuoto e chi guarda il film apprenderà quali sono gli eventi che hanno condotto i protagonisti in quella situazione.
Aaron Sorkin, premio Oscar per la sceneggiatura di The social network di David Fincher, torna per la seconda volta dietro la macchina da presa (dopo Molly’s Game) per dirigere un film la cui ideazione si deve a Steven Spielberg nel 2006 e che racconta di un evento realmente avvenuto nell’ormai lontano 1969. Il processo a cui si fa riferimento nel titolo e che copre la maggior parte del film, non è altro che il pretesto per raccontare la società americana degli anni sessanta, il clima rivoluzionario, nonché la delusione e il malcontento di una parte del Paese per la guerra del Vietnam. Ma all’interno di questo film c’è anche un razzismo e una violenza che sembra raccontarci un’America più attuale che mai – il film è uscito nel 2020, anno che ricorderemo, tra le altre cose, per aver riportato sotto i riflettori il movimento Black Lives Matter. Ed è proprio questo a colpire di più del film di Sorkin. L’ingiustizia che qui viene raccontata non può non colpire lo spettatore, soprattutto uno spettatore dei nostri giorni. L’ingiustizia è accompagnata dalla violenza, forse tenuta eccessivamente a freno per tutto il corso del film, ma comunque presente.
È sia una violenza fisica, che fa capolino di tanto in tanto, ben diretta e disturbante, sia morale. E tutte e due scioccano alla stessa maniera, perché laddove la violenza visiva mostra il sangue e i lividi, quella morale si riflette nelle parole dei protagonisti, nei loro sguardi e nel disagio che provano, ad esempio, nell’assistere all’umiliazione subita da uno di loro nell’aula del tribunale. È quindi un film che prende una posizione chiara, difronte alla quale è quasi impossibile nutrire dei dubbi, perché non c’è mai una volta in cui i protagonisti fanno qualcosa di criticabile, che possa mettere seriamente in dubbio la loro nobiltà d’animo. Non sempre questo è un pregio, perché è facile arrivare in questo modo ad appiattire il livello della scrittura – e infatti talvolta la sceneggiatura si lascia andare ad un eccessivo didascalismo – tuttavia tutto ciò che vediamo non è altro che la via per raccontare l’avvelenamento di un sistema, che propagandando patriottismo e uguaglianza, finisce per schiacciare chi individua in ciò delle ipocrisie.
È quindi impossibile non cogliere dei parallelismi con il mondo di oggi. Sorkin, che spesso ha raccontato storie reali capaci di guardare anche all’attualità, lo sa e non lo nasconde. Il processo ai Chicago 7 è un film che si àncora al nostro tempo, non cerca di crogiolarsi in un contesto che non ci appartiene, e racconta la realtà filtrandola attraverso la finzione macchina da presa, che è ciò che il cinema sa fare meglio.
Seppure i Chicago Seven siano per l’appunto sette, alcuni emergono più prepotentemente rispetto ad altri. Vanno sicuramente lodate le varie interpretazioni, tra cui spicca quella del giudice interpretato da Frank Langella. Ottimo lavoro anche da parte di Mark Rylance, nonché da Sacha Baron Cohen, che alterna momenti farseschi ad alcuni più seriosi, che ne rivelano le reali motivazioni. Menzione speciale anche per Michael Keaton che pur comparendo (troppo) poco lascia comunque il segno.
A questo film si può forse imputare oltre che, come già detto, un eccessivo didascalismo nella scrittura, soprattutto nella parte conclusiva, un finale che cede a facili sentimentalismi, correndo il rischio di far perdere valore a quanto raccontato fino a quel momento. La scelta di concludere il tutto facendo leva sui sentimenti, ancora prima che sulla giuria, su chi guarda il film rende gli ultimi minuti dell’opera stucchevole, perdendo quella forza registica che ne aveva caratterizzato parecchi momenti.
Il processo ai Chicago 7 è stato candidato a cinque Golden Globe (tra cui miglior regista e miglior film drammatico) e con buone probabilità riceverà altre nomination per gli Oscar del 2021. La speranza è che a questo film venga riconosciuto quello che è il suo maggior pregio, la capacità di legare il passato al presente senza forzature.