Il grande spirito aveva predetto a Renato (Rocco Papaleo) che sarebbe giunto Tonino (Sergio Rubini), l’uomo del destino; ma il grande spirito, come in ogni profezia che si rispetti, non aveva rivelato come sarebbe successo.
Così Tonino, detto il barboncino, ladro di mezza età, delinquente da pochi spicci, mai domo e pieno di voglia di rivalsa per vecchi dolorosi errori, ruba la refurtiva alla sua banda di “colleghi rapinatori” che lo avevano lasciato a fare il palo e scappa per i tetti del quartiere.
Ferito ad una gamba nel tentativo di salvare il bottino e sfuggire alle pallottole dei suoi inseguitori, trova rifugio nel lavatoio malmesso di un’alta terrazza condominiale dove vive Renato, uomo bizzarro, che si fa chiamare Cervo nero, crede di essere un indiano Sioux, sopravvive senza acqua ed elettricità e sa come raggiungere mezza città senza mettere piede per terra, muovendosi da palazzo a palazzo attraverso tubi, scale e grondaie.
Tra i due border-man nasce giocoforza un’alleanza singolare, in cui Tonino, apparentemente il più forte, sfrutta la sapienza stravagante ma efficace di Renato per mettere in salvo se stesso e il suo prezioso tesoro dalla criminalità infuriata che lo bracca, il secondo aiuta l’improvviso nuovo amico che, secondo quanto rivelato dal grande spirito, voce-guida evanescente che solo lui sembra sentire e vedere, può cambiargli il destino per sempre.
Presentato in anteprima al Bari International Film Festival 2019, candidato ai Nastri d’Argento dello stesso anno per il miglior soggetto, Rubini mette in immagini una delle sue più frequenti fantasie di bambino, lo scontro tra indiani e cowboy, in cui lui stesso amava prendere le parti dei primi, autoctoni in difesa della propria terra contro gli invasori abusivi, violentatori di identità.
In questa suggestione il regista traspone la propria favola crepuscolare, ambientandola nella città di Taranto, tra le periferie sofferenti abitate da ultimi, disperati e malvivenza, annebbiate nella fotografia di D’Attanasio in un grigio velenoso, soffocate da una polvere soffusa e drammatica che risponde allo sfondo inquietante della mefitica Ilva, mentre dei due mari che la bagnano resta solo l’idea, lontana, invisibile, quasi fossero immaginarie utopie.
La parola parlata è il dialetto locale, che ristabilisce fortemente le radici viscerali di Rubini con la sua Puglia, da cui non si è mai veramente allontanato: attraverso il suono della lingua storpia, iraconda, capace di improvvise e spiazzanti dolcezze, si intuisce e si sorride, si fa rumore e si piange due, tre lacrime di consapevolezza, delusione, improvviso riconoscimento tra simili e ritrovata, insperata umanità.
Tonino e Renato sono opposti che si attraggono senza saperlo, abbisognano l’uno della follia dell’altro, sono il bene ed il male da redimere e far tornare insieme, la vecchia e la nuova città prima e dopo il contagio dell’industrializzazione violenta, la vita antica e quella da far rinascere tra le persone che non sfruttano le debolezze della comunità, ma la portano avanti a costi altissimi.
Così assumono senso i boschi, le radure, i grossi bisonti, di cui vaneggia Renato, un tempo presenti in tutta la città, poi scomparsi, estinti, a causa delle ciminiere costruite dagli yankee e dal livore che le persone riservano anche e soprattutto ai più vicini e ai più deboli, facili bersagli per vigliacchi; allo stesso modo, assumono altrettanto senso gli occhi accesi di grinta e finto egoismo di Tonino, la sua generosità scomposta, il senso di giustizia e di lealtà che non lo hanno abbandonato, povero diavolo nato e cresciuto sgomitando in questo piccolo, dimenticato, bellissimo inferno, facendo e lasciando cicatrici.
Diventa amara la commedia; diventa dramma la bizzarria; sulle note eleganti e fin troppo cariche di Ludovico Einaudi, si assumono i contorni di qualcosa di più grande, pesante, volutamente non insistito né spiegato, ed il racconto western smette di essere favola innocua, si colora di tratti marci, più indigesti, si adombra del peso opprimente della metropoli che spia e tende inganni ai due compari di prodezze sgangherate rifugiati nel loro attico di inverosimile pace beffarda, li vorrebbe cogliere in basso, trascinarli nella melma che la agita furiosa, la sporca e la deprime.
Ma i due eroi-aniteroi improvvisati non cedono all’abbaglio, per principio e per calcolo, per convinzione e per strategia, resistono nella loro dimensione aerea, verticale, che diventa respiro di tutto il film, lo teatralizza conferendogli unità di luogo e tempo, lo avvicina alla poesia, ispirandone una visione ed una dinamica peculiari: dall’alto verso il basso, dai tetti alla strada, dai parapetti ai cantieri, dalle antenne al terriccio, si tracciano percorsi scovati ed inventati, attraversati come gatti sospesi in virtuosi inseguimenti o in sparatorie all’ultimo sangue, che di Gomorra mantengono solo una eco lontanissima, rimandando molto più alle epiche sfide tra pellerossa e generali americani, vissute nel silenzio dei deserti, nello scatto gestuale, tra tegole e cassoni, soffitti in bilico sulla gravità della vita, renitenti all’atterraggio.
Questo tipo di inedite cacce tra terrazzi condominiali inizia e chiude il film, come a sintetizzare le ali e la catena che firmano il destino di certa razza umana, una bellezza di cui non si dispone. La prospettiva reale diventa perciò simbolica, lasciando spazio ad una stupefazione magica, ad un surreale un po’ accennato ed un po’ chiamato, che stempera la perdita, la solitudine e sembra giungere alla fine di un lungo, enorme, univoco richiamo a che qualcosa, in fine, possa esistere davvero, oltre l’emarginazione di un criminale qualunque e di un saggissimo folle.
Allegoria sghemba di purezza e libertà, di qualcosa di perduto e di mancante, il grande spirito illumina la grandezza laddove la maggior parte del civile sentire trova miseria, squilibrio e insipida, manovrabile patologia.