HomeCapolavoriIl Deserto Rosso: 60 anni per l'esordio a colori di Antonioni

Il Deserto Rosso: 60 anni per l’esordio a colori di Antonioni

Era l’ottobre del 1964 quando uscì Il Deserto Rosso, capolavoro dell’arte cinematografica diretto da Michelangelo Antonioni e scritto insieme a Tonino Guerra, con la straordinaria performance di Monica Vitti e il grande esordio alla fotografia di Carlo Di Palma. Parte dell’indimenticabile tetralogia dell’incomunicabilità, aperta da L’Avventura (1960), seguita da La Notte (1961) e L’Eclisse (1962), il cineasta ferrarese dice addio al bianco e nero con il suo primo film a colori, vincitore del Leone D’oro alla venticinquesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Sessant’anni e non sentirli: Il Deserto Rosso è un’istantanea dell’Italia del boom economico che tenta di esplorare gli effetti dell’industrializzazione che imperano ancora oggi sul paesaggio e sulle persone, attraverso un viaggio nella psiche di una donna della provincia del ravennate.

Il deserto rosso

Il Deserto Rosso – La Trama

Giuliana (Monica Vitti) vive a Ravenna con il marito Ugo (Carlo Chionetti), dirigente industriale e il loro figlio piccolo. Stanca e insoddisfatta, complice anche l’assenza del marito, Giuliana tenta il suicidio (che all’interno del film sembra essere camuffato come un incidente stradale) l’ennessimo tentativo disperato della donna nel rincorrere una stabilità emotiva e mentale che sembra aver perso ormai da tempo. Il senso di inquietudine che pervade Giuliana è amplificato dal cupo e opprimente paesaggio industriale di Ravenna.

Intrappolata nelle sue nevrosi, nelle sue manie e allucinazioni Giuliana, sconfitta, tenta di scappare dal grigiore della sua città e da se stessa, o almeno ci prova, conoscendo Corrado (Richard Harris) un collega del marito che fa spesso visita alla famiglia. Dapprima lui l’affascina, in una danza di sguardi accennati ma carichi di desiderio e dialoghi densi, ma inizia a percepire le ansie di Giuliana e presto la loro storia si rivela fallimentare. Non solo non riesce a colmare, anzi amplifica l’indecifrabile vuoto della protagonista facendola precipitare ancora di più. Un matrimonio infelice, un innamoramento asettico che vede Giuliana in continua ricerca di un amore che nemmeno suo figlio, troppo simile al padre, riesce a darle.

Il Deserto Rosso

Il Deserto Rosso – La Recensione

Più che una condizione individuale, Il Deserto Rosso esprime l’incapacità di adattarsi alla società moderna che interessa la borghesia del ravennate e, in senso più ampio, il genere umano. La pellicola esplora il tema della solitudine, dell’alienazione e dell’evasione da questo nuovo mondo (l’Italia del boom economico) dominato dal rumore assordante delle macchine, coperto di nebbia, immerso nel fango e in acque putride. Nonostante l’inquinamento e il degrado siano palpabili, questo scenario risulta stranamente affascinante. Tutto va dritto e veloce mentre la Vitti vaga disorientata non riuscendo più a identificarsi con l’ambiente circostante.

Con Il Deserto Rosso Antonioni mette in scena uno spaccato della relazione in costante cambiamento tra uomo e natura, il nuovo che sostituisce il vecchio come la fabbrica schiaccia il paesaggio. Nel film la condizione di Giuliana è simmetrica a quella del contesto in cui vive: rimane solo l’artificio che fa sentire la protagonista un’estranea da tutto e da tutti spingendola a voler fuggire, sia fisicamente con il tentato suicidio che idealmente, con la visione-racconto della spiaggia rosa (l’incantevole baia di Budelli, in Sardegna). Una scena che si distacca dalle atmosfere soffocanti che riempiono tutto il film e dà l’impressione che la protagonista possa salvarsi, trasportando tanto lei quanto lo spettatore in una dimensione confortante.

C’è qualcosa di terribile nella realtà, e io non so cos’è. Nessuno me lo dice

Questa forse la frase più evocativa dell’opera. In un’intervista del 1964 con Jean- Luc Godard, Antonioni dichiarò che Il Deserto Rosso non è una condanna alla società industrializzata ma piuttosto si tratta di un tentativo (magistralmente riuscito) di descrivere l’incapacità dell’uomo di adattarsi al cambiamento, in una sorta di selezione darwiniana. Se da un lato Ugo, il marito di Giuliana, è in piena sintonia con la Ravenna modellata dallo sviluppo industriale che investì la città negli anni ’60 quasi da provarne eccitazione, Giuliana al contrario non si sente più parte di quell’habitat e pian piano perde se stessa.

A sessant’anni dalla sua uscita non cambia la forza dell’immagine. Il Deserto Rosso è forse il più grande esempio del modo di intendere il paesaggio per Antonioni: non solo set ma co-protagonista della narrazione. Ogni sequenza riflette cromaticamente lo stato psicologico di Giuliana e l’emotività straniante dei personaggi in un’armonia visiva commovente quanto evocativa. Dal grigio fumo delle fabbriche, ai corridori bianchi e asettici della casa, massima espressione dell’incomunicabilità tra Giuliana e il marito, fino al giallo della bandiera della nave che non sventola, simbolo di contagio.

Da un lato il grigiore apatico che esprime il disagio interiore della protagonista, dall’altro toni sporadici più saturi simbolo della bellezza elettrizzante del progresso, vista dagli occhi del marito e degli amici della coppia. Una palette di colori discordante ma comunque armonica che crea un effetto straniante, ritraendo il rapporto tra uomo e il mondo moderno, conflittuale nel caso di Giuliana, simbiotico per gli altri personaggi. Il tutto per un ritratto vivido del nuovo e opprimente paesaggio industriale che il regista non denuncia anzi ritrae in tutta la sua bellezza distruttiva.

La rivoluzione espressiva del colore di Michelangelo Antonioni

Il regista non ci offre né risposte né facili soluzioni ma, con la sua rappresentazione rarefatta, riesce ad assorbire lo sguardo dello spettatore attraverso un’atmosfera estraniante e malinconica, resa ancora più inquietante dalla colonna sonora di Giovanni Fusco, complementare all’esperienza visiva. Il Deserto Rosso più che una visione è un’esperienza sensoriale e stimolante, quasi epidermica che spinge lo spettatore a contemplare la metamorfosi uomo-natura. Un binomio inscindibile da sempre in constante influenza reciproca che, come in questo caso, può portare alla perdita dell’indentità individuale e collettiva. Il colore è qui, più che altrove, espediente narrativo di un’umanità sconfitta, instabile e continuamente in fuga, non si sa da cosa e né verso dove.

PANORAMICA RECENSIONE

Regia
Soggetto e sceneggiatura
Interpretazione
Emozione

SOMMARIO

Potente, disorientante e più che mai attuale, con Deserto Rosso Antonioni esplora con sensibilità l’alienazione della società moderna, servendosi del paesaggio industriale come specchio dell’interiorità dei personaggi. Un ritratto senza tempo di un mondo che, oggi più che allora, produce, si evolve e corre sempre più ma che può farci sentire profondamenti soli.
Valeria Furlan
Valeria Furlan
Sognatrice per professione, narratrice nel tempo libero, vivo di cinema, scrittura e tè alla pesca. Completamente persa in Antonioni e nell'estetica della Nouvelle Vague, vorrei vivere in un film di Wong Kar Wai e non rifiuto mai un bel noir

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