Ida è il sesto lungometraggio del regista Pawel Pawlikowski, di origine polacca ma di forte stampo inglese, determinato dai numerosi anni che ha trascorso in Gran Bretagna. Per questa pellicola, da lui anche scritta (assieme a Rebecca Lenkiewicz), il regista ha fatto ritorno nella patria che gli ha dato i natali. Oltre alla produzione – di matrice assieme polacca, italiana, danese e francese – Pawlikowski sceglie di ambientare anche la diegesi nella Polonia del 1962. Lungo appena ottanta minuti, il film è stato presentato in anteprima nel 2013 al Toronto International Film Festival, dove ha vinto il premio FIPRESCI (cioè della Fédération Internationale de la presse cinématographique) nella sezione “Special presentation”. Distribuito ufficialmente nel 2014, pochi mesi più tardi si è guadagnato due nomination agli Oscar, per miglior fotografia (a Ryszard Lenczewski e Lukasz Zal) e miglior film straniero, vincendo nella seconda categoria.
Ida, la trama del film
Nel 1962, in Polonia, una giovane novizia orfana – Anna (Agata Trzebuchowska) – prima di ritirarsi in convento per il resto della sua vita viene convinta dalla madre superiora a recarsi in visita da sua zia Wanda. La zia (Agata Kulesza), sorella della madre di Anna e nota ai più con l’espressione “Wanda la sanguinaria”, è un giudice che ha rivestito un ruolo di importanza capitale nell’esecuzione di svariati partigiani non comunisti dell’AK. Unica parente in vita dell’innocente Anna, è una donna sensibilmente segnata dal suo passato. Affascinante e mai trascurata, Wanda cela però la sua neppur troppo latente depressione dietro all’alcolismo e alle relazioni occasionali. Dopo un primo incontro non propriamente caloroso, le due decidono di partire alla volta di un viaggio che le ricongiungerà con il proprio drammatico passato e con le domande che entrambe si pongono da anni. In concomitanza con l’inizio del viaggio, Anna scoprirà che il vero nome assegnatole dai propri genitori al momento della sua nascita è Ida.
Obiettivo del viaggio è quello di ritrovare i corpi dei genitori di Ida, morti durante la seconda guerra mondiale. Wanda tenta allora di rintracciare Szymon, l’uomo che in passato aveva nascosto i genitori della ragazza e il figlio della stessa giudice. Dopo svariati tentativi, Wanda e la nipote riescono a mettersi in contatto con l’ormai anziano e malato Szymon e a far luce sulle verità non rivelate relative alla propria famiglia. Nel corso del loro viaggio, inoltre, le due donne fanno la conoscenza di Lis, un giovane e carismatico sassofonista che mette in crisi la già incerta religiosità della ragazza. Di ritorno dal viaggio le due donne si separano, per tornare alla propria quotidianità. Ma le scoperte e le prese di coscienza saranno troppo importanti per rimanere represse, e cambieranno irrimediabilmente i destini di entrambe le donne.
Un racconto di formazione fuori dal comune, in bilico tra road trip e religione
Questo lungometraggio è per Pawlikowski il mezzo tramite cui narrare un atipico racconto di formazione – quello, ovviamente, della giovane protagonista. Questo inedito bildungsroman assume le forme di un road movie non particolarmente convenzionale, messo in atto da una coppia inconsueta in uno scenario altrettanto peculiare, quello della Polonia che ancora risente dell’influenza bellica. Molto forte e presente è in effetti la componente storica, che però non assurge a protagonista incontrastata del film (come invece solitamente accade con le pellicole che trattano le implicazioni del secondo conflitto mondiale). Qui, il dramma storico fa da contrappunto al dramma personale, senza mai rubare la scena ma fornendo un background necessario e organico, ma non invasivo. In Ida la Storia incontra la crisi personale e religiosa, il passato collima con il presente concorrendo alla realizzazione di un dramma psicologico di prim’ordine.
Famiglia e religione si contendono il senso d’appartenenza della giovane donna di fede, sul punto di prendere i voti. In assenza di figure familiari, Ida ha rivolto la propria fedeltà verso Dio, ma d’un colpo sente di appartenere più alla zia che alla chiesa, cui ha dedicato la sua intera esistenza presente, passata e futura. Quando Dio per lei viene meno acquisisce importanza la figura di Wanda e viceversa, in un continuo e logorante tira e molla tra affetto e credenza. Questo accade nonostante le due donne appaiano l’una opposto dell’altra. Morigerata ragazza di chiesa timida e disinteressata alle futilità del mondo terreno la giovane, viziosa ma decisa la zia, affascinante e sensuale ma anche acuta e sfrontata. Nella prima la spinta esistenziale si manifesta con l’interesse per l’ultraterreno, nella seconda con l’attaccamento a ciò che di più terreno esista. In realtà, queste plateali differenze celano una somiglianza di fondo. Entrambe sono donne sole, senza famiglia, con un futuro incerto e un passato dimenticato o dimenticabile ma che in realtà si ha necessità di ritrovare, di esplorare, per trovare le radici del proprio essere.
Pawlikowski in questa pellicola problematizza la figura religiosa, un’operazione che negli ultimi anni al cinema ha portato ad interessanti risultati (si veda anche il caso, più recente, di First reformed). Il suo non è però uno spunto inedito: il film è infatti eco di precedenti illustri. La somiglianza più diretta si trova indubbiamente in Viridiana (1961) di Luis Buñuel. Anche in quel caso una giovane novizia sul punto di prendere i voti (interpretata da Silvia Pinal)viene convinta dalla madre superiora a far visita allo zio, e il burrascoso contesto in cui si ritroverà provoca in lei un inarrestabile allontanamento dalla sfera religiosa. Non mancano però anche riferimenti al Diario di un curato di campagna (1951) di Robert Bresson, soprattutto per quanto riguarda l’austerità (sia situazionale, diegetica, che compositiva dell’immagine) e la sensazione di tensione crescente.
L’impeccabile lavoro dietro alla regia e alla fotografia
Il film è composto da un susseguirsi di inquadrature ineccepibili. Pulitissime, essenziali ma non per questo banali, che dimostrano di essere state a lungo pensate. Tagli arditi e una composizione iconografica studiata ma non tendente al barocchismo punteggiano questa regia di Pawlikowski. Il rigore estetico si fa inevitabilmente rimando visivo della compostezza della protagonista, senza però risultare eccessivamente austero né noioso. Le singole inquadrature, che racchiudono giochi di forze diegetiche e tensioni che sfociano sul piano narrativo, sono contenute in un formato non convenzionale, quasi soffocante, in rapporto 1,37:1. Il rigore è suggerito anche dall’utilizzo del bianco e nero (elemento cui ultimamente il cinema ha fatto ricorso più volte, come in The artist, Roma, ma anche i recenti Mank e Malcolm & Marie).
L’assenza di colore (che permane anche in Cold war, dello stesso regista), unita alla predilezione per i piani ravvicinati a sfavore di campi lunghi o lunghissimi, permette di approcciarsi al meglio all’indagine psicologica che il film mette in atto nei confronti della propria protagonista. Con Ida, Pawliskowski unisce avvenimenti storici e questioni private, religione e politica, regia minuziosa e sperimentazione, citazioni ed esiti inediti, bilanciando tutti gli elementi alla perfezione e realizzando un film di rara profondità.