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Hunters – Ebrei, nazisti e mitra

“Non vedo il male, non sento il male, non parlo male, eppure il male esiste lo stesso, non è vero”?

È proprio lì, davanti ai tuoi occhi chiusi, alle tue orecchie tappate, alla tua lingua legata. Questa cecità caparbia permette che accadano cose piuttosto riprovevoli. Sale in cattedra Mr. Al Pacino a raccontare il peso dell’orrore e il prezzo della vendetta, ad insegnare l’eroismo insito nella memoria e la virtù radicata nell’espiazione. Nonostante non si abbia più molta voglia di ascoltare prediche, nessuno troverà il coraggio di interrompere un oratore sacro al cinema come Al Pacino. Perché di questa lezione abbiamo ancora tanto bisogno. Perché “Hunters” è uno show brutale animato da uno spirito vitale pulsante, aggressivo e affamato, con brandelli del cinema di Tarantino e di Spike Lee ancora fra i denti.

Hunters
Al Pacino è Meyer Offerman; Logan Lerman è Jonah Heidelbaum

Amazon Video non smette di elargire doni, e come un Babbo Natale nettamente fuori stagione rallegra un marzo perverso che ci esilia dalle sale cinematografiche: è cosa assai gradita la nuova serie televisiva prodotta da Jordan “Re Mida” Peele, il regista di “Scappa – Get Out” e “Noi – Us”.

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Un party a bordo piscina, cielo terso, nemmeno una nuvola ad oscurare i pensieri degli invitati. Nella dimora per nulla modesta di Biff Simpson si sta per consumare un americanissimo barbecue, ma il padrone di casa, nazista fino al midollo, servirà ai presenti una cruenta strage a base di mitra e surrealismo pop. Inizia in un bagno di sangue questa folle storia, perché vi sia chiaro fin dal principio che finzione e realismo si prenderanno a spallate fino alla fine, senza che venga chiarito chi resta in piedi e chi finisce al tappeto.

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“Hunters”: i cacciatori di nazisti

Ciò che è evidente invece è che i nazisti sono ancora lì, in quegli anni ’70 così ben disegnati, fra pettinature afro e abiti dalla fantasie psichedeliche, in un America in cui tanti ascoltano i Rolling Stones e pochi tornano dal Vietnam. Il nascondiglio a stelle e strisce è stato gentilmente offerto dal governo degli Stati Uniti. Si poteva forse concedere all’Unione Sovietica l’occasione di un vantaggio, qualora le brillanti menti del Reich se la fossero svignata verso Est? Meglio ignorare il loro disprezzo per la vita umana, meglio nasconderli in America, meglio appropriarsi dell’arma che potrebbe essere impugnata dal nemico, poco importa se la presa è ricoperta di sangue.

Questo schifo è accaduto veramente. Le rinnovate identità degli scienziati nazisti venivano allegate ai fascicoli con una graffetta, da cui il nome dell’amaro progetto. Operazione “Paperclip”. Così se l’apparato governativo mette la propria firma sulle scartoffie dell’orrore e occulta i carnefici, qualcun altro si farà carico di dispensare il giusto castigo.

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L’ubertoso ingegno di David Weil mette in campo loro, cacciatori di nazisti improbabili, barocchi e un po’ perversi. Condottiero d’esperienza e dalla mente lucida, a stringere fra le mani le redini della vendetta è Meyer Offerman, interpretato da Al “sempre in grande spolvero” Pacino. Il suo team insegue la feroce rivincita con la star del cinema Lonny Flash (Josh Radnor, un qui baffuto Ted di “How I Met Your Mother”), l’addestratissimo veterano del Vietnam Joe Torrance (Louis Ozawa Changchien), la suora per nulla incline al perdono Harriet (Kate Mulvany), la “Black&Girl Power” Roxy Jones (Tiffany Boone), e la coppia di dolci ma affatto docili coniugi Mindy e Murray Markowitz (Carol Kane e Saul Rubinek). Mancherebbe solo un giovane nerd all’appello ed eccovi serviti. Si chiama Jonah Heidelbaum, è molto intelligente e pare abbia un intuito invidiabile. Smercia erba e divora fumetti, non curante delle proprie origini ebraiche fino a quando la nonna Ruth, sopravvissuta ai campi di concentramento, non viene assassinata.

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Logan Lerman (Jonah Heidelbaum) e la nonna Ruth (Jeannie Berlin)

La caccia ai nazisti ora può dirsi ufficialmente aperta. Noi ci apprestiamo a rileggere una pagina di storia che trasuda un dolore straziante, immergendoci in un estro creativo irriverente che non disdegna le torture in bella vista, né teme i toni eccessivi e sarcastici.

“Hunters” cambierà il vostro modo di intendere il gioco del bowling, vi farà desistere dal giocare a freccette il venerdì sera al pub e quasi sicuramente vi farà guardare con sospetto il box doccia di casa. Ma vi piacerà vedere i nazisti pagare per gli abomini commessi. E così, traboccanti di soddisfazione, gratificati dalla vendetta, ci si domanda quale prodigio ci ha reso quelli che “stanno dalla parte giusta”. Gli eroi sono fatti di inchiostro, vivono in una qualche pergamena scritta da chi si è alimentato di sogni e desideri. Ma per essere eroi, per esserlo ora, per esserlo in questo mondo, ci si può concedere il lusso della pura vendetta?

Kate Mulvany è Sister Harriet

Mentre il giovane Jonah precipita in un inferno nazi-dantesco, guidato da un virgiliano Al Pacino, anche lo spettatore prende parte a questa missione rocambolesca lastricata di buone intenzioni e male azioni. Cadendo vittima delle stesse leggi del contrappasso catartico stabilite dagli istrionici cacciatori. La prima volta che appariranno sullo schermo vi sembreranno uno schizzo sommario dei “Village People”: iconici, parossistici, un po’ prigionieri di loro stessi, un po’ fumetti intrappolati fra le pagine di carta. Ma presto vi accorgerete che è proprio la loro capacità di adattarsi al cliché narrativo l’angolazione migliore da cui fotografare “Hunters”. Si tratta di personaggi che escono dalle pagine dell’immaginazione, di fumetti del cinema, che appartengono al capriccioso mondo della finzione, che proprio grazie al loro non appartenere a questo universo sanno far riflettere sulla nostra storia. Se per comprendere come la lancetta di un orologio ripeta quel ticchettio in modo così preciso necessitiamo di sbirciare l’ingranaggio, per riappropriarci della memoria storica abbiamo bisogno di rielaborarla, di giocare secondo le nuove regole della narrativa dell’immagine, magari anche di esagerare un po’, e forse in questo modo la faremo nostra.

E se c’è già chi accusa la serie di esuberanza caricaturale e richiama al rispetto degli accadimenti, l’ideatore Weil ribatte: “Ho deciso che prigionieri e sopravvissuti avessero un tatuaggio con un numero superiore a quello più alto registrato nel campo, ossia 202.499. Per rispetto, nessuno dei miei personaggi doveva avere un numero appartenuto ad una persona esistente”.

“Hunters” è una serie che gode di una regia intelligente ed un montaggio molto riuscito, capace di avvicendare i coloratissimi anni ’70 ai cupi anni ’40 all’interno dei campi di concentramento. Si alternano reale e finzione, black ironia e violenza, il dramma e il trash. E così si incorniciano i personaggi in “dutch angle” alla Spike Lee, si frammenta la narrazione tramite un gioco a premi dal titolo “Perché tutti odiano gli ebrei?” quasi fosse stato partorito dal contorto genio Quentin T., e si finisce per strizzare l’occhio al B-movie. Divertissement di serie B. Quello di cui potrete godere sprofondando sul divano, con una birra in mano, augurandovi che sullo schermo scorra sana furia pulp.

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“Hunters” è senza dubbio ottimo intrattenimento, qualcuno lo definirebbe di serie B, ma qualcuno giura che Al Pacino e i suoi siano pronti per giocare nella massima serie. Weil dichiara di avere in serbo per noi cinque stagioni. E data la tanta carne al fuoco lasciata a rosolare sulla griglia in questi primi dieci episodi si è già pronti ad addentare la seconda parte del campionato.

Voto Autore: [usr 4,0]

Silvia Strada
Silvia Strada
Ama alla follia il cinema coreano: occhi a mandorla e inquadrature perfette, ma anche violenza, carne, sangue, martelli, e polipi mangiati vivi. Ma non è cattiva. Anzi, è sorprendentemente sentimentale, attenta alle dinamiche psicologiche di film noiosissimi, e capace di innamorarsi di un vecchio Tarkovskij d’annata. Ha studiato criminologia, e viene dalla Romagna: terra di registi visionari e sanguigni poeti. Ama la sregolatezza e le caotiche emozioni in cui la fa precipitare, ogni domenica, la sua Inter.

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