Claire Denis e la fantascienza, due opposti che si attraggono in un film che disturba e destabilizza, affascinando al contempo per il particolare approccio con il quale l’ultrasettantenne regista parigina si è avvicinata al genere, adattandolo e plasmandolo a proprio piacimento per dar vita ad un insieme pregnante e inquieto, territorio ideale di un percorso senza precise linee temporali. Perché High Life procede tramite un montaggio che ci trasporta avanti e indietro nella gestione narrativa degli eventi, con un prologo già prossimo alla fine dopo il quale ha inizio una serie di flashback a ritroso che svelano lentamente quanto accaduto in precedenza e ha condotto all’apparentemente tragica situazione iniziale, con il resto dell’equipaggio i cui corpi senza vita vengono gettati nello spazio dall’unico superstite.
La Denis si allontana dalle moderne contaminazioni spettacolari e da uno spettacolo di facile consumo, prendendosi i propri tempi e costruendo un’atmosfera inquieta e satura di emozioni represse, esplodente in scene madri di crudele violenza fisica e psicologica che spezzano quella superficiale, trattenuta, quiete. Non appena le carte vengono progressivamente svelate, in High Life ha luogo in un teatrino degli orrori che pone non pochi quesiti su tematiche assai attuali e terrene e trasforma gli improvvisati esploratori spaziali in una sorta di cavie da laboratorio, quei guinea pig tanto cari a certe dinamiche horror, destinati ad una sola conclusione possibile. Proprio l’epilogo, con le dovute proporzioni e una marcata asciuttezza di stile, può ricordare certi passaggi del celebrato Interstellar (2014) nolaniano, il tutto filtrato in un’ottica che guarda a certo cinema di Tarkovskij, Solaris (1972) ovviamente in primis.
La trama di High Life vede per l’appunto al centro della vicenda una banda di giovani condannati a morte che, per evitare la pena capitale, hanno accettato di prendere parte ad un esperimento atto ad estrarre energia da un buco nero. La dottoressa Dibs “gestisce” a modo suo i più giovani compagni di viaggio, tentando di dar vita ad una procreazione tramite inseminazione artificiale: a bordo infatti ogni rapporti fisico è tassativamente proibito dalle regole d’ingaggio. Il viaggio diventerà sempre più arduo dal punto di vista fisico e mentale, trascinando gli occupanti della navicella in un gioco al massacro senza vinti ne vincitori.
In questa macabra fiera degli orrori, High Life intende comunque celebrare la vita in modo antitetico: non è un caso che, come scoprirà ben presto lo spettatore, tutto ruoti intorno ad un potenziale e atteso concepimento, circostanza clou attesa come definitiva svolta ai rispettivi destini da prigionieri, senza alcuna via di fuga se non il vuoto siderale della galassia. E allora via a potenti scene madri che hanno proprio nell’esibita, torrida, sessualità una punta lancinante, dolorosa e goduriosa al contempo: la sequenza in cui la figura “maestra” di Juliette Binoche, supervisore nonché membro più anziano del gruppo, si scatena in un strabordante atto di autoerotismo tramite avveniristici macchinari, apoteosi di un piacere ricercato ma parzialmente negato dallo scopo primario della missione. La messa in scena, ricalcata sull’impatto minimal di altri cult a tema, è limitata e volutamente castrante, con una sola ambientazione (esclusi i brevissimi flashback sulla Terra) a far da sfondo ad un intreccio tormentata e ricco di spunti, in cui Robert Pattinson si guadagna, giorno dopo giorno, il ruolo da futuro Prometeo, padre di un futuro forse alle porte nel quale non ripetere gli errori che furono e ritrovare quell’umanità perduta tra il buio dell’ignoto.
Voto Autore: [usr 4,5]