Presentato alle Giornate degli Autori dell’ultima Mostra Cinematografica di Venezia, Giulia, terza creatura del regista Ciro De Caro, aderisce perfettamente ad un prototipo di cinema indie made in italy che si fa scudo e vanto delle sue proprie ed uniche forze, le sperimenta fin dove l’occhio accoglie e tematicamente insiste su un disagio generazionale ed esistenziale di vecchia e classica data.
Lo sguardo del regista anche nelle opere precedenti come Spaghetti story e Acqua di marzo, ha dimostrato di indulgere nell’esplorazione di una precarietà umana non risolta, indagando situazioni scomode, conflittuali e quotidiane, ponendo sempre la domanda e non la risposta sulla difficoltà di trovare un equilibrio da parte di chi si affaccia, volente o nolente, alla vita adulta.
De Caro, dunque, ama frequentare la scissione tra concreta indipendenza e sogni di gloria, maturità e libertà naturale, sicurezza sociale ed integrale autodeterminazione, il tradizionale posto nel mondo che tutti cercano, anche quando hanno smesso di cercarlo o pensano di averlo trovato.
Giulia – Trama
Così Giulia è la summa critica di tutti questi topoi ed influenze, che convolano nella figura di una ragazza adulta, protagonista, interpretata da Rosa Palasciano, qui nelle vesti anche di coautrice della sceneggiatura, colta in un momento cruciale della propria vita.
La donna è rimasta senza nulla, sola sulla strada, durante la torrida estate post-lockdown della capitale: non ha un impiego fisso, è ingabbiata tra colloqui lavorativi sbrigativi e superficiali e una storia d’amore trascinata oltre le braci, finita in una bolla di incomprensioni e recriminazioni.
Unica consolazione giocattoli abbandonati che raccoglie dai cassonetti per strada e gli incontri al circolo degli anziani dove intrattiene e fa compagnia ai “vecchi di quartiere”, quasi più soli di lei, racimolando qualche spiccio per l’impegno. Proprio qui incontra Sergio (Valerio di Benedetto) che le offre un riparo nella propria casa, dove vive con il coinquilino Ciavoni (Fabrizio Ciavoni).
Questo nuovo trio si muoverà seguendo le sincopi discontinue di Giulia, i suoi slanci emotivi, le improvvise distanze, i colpi di testa ed i sogni, sempre in cerca di una felicità che sembra non appartenere al mondo che calpesta.
Giulia – Recensione
Esercizio di forte tecnica realistica, Giulia è un piccolo dramma solare, che, per espressa volontà del regista, scarnifica le componenti tecniche di una troupe cinematografica, abolendo musiche, trucchi, inquadrature e fotografia, elementi troppo costruiti ed artefatti, accantona copioni al dettaglio per lasciare libero sfogo all’immagine nella sua ruvida, coinvolgente pienezza.
Questo accade per potenziare il carattere autentico dell’opera, l’istantaneità dell’ interdetto, l’odore della nouvelle vague, il fascino dello slice-of-life di una protagonista fragile e vitale, in affanno sulla vita rada e affaticata che pur la circonda.
La colonna sonora può veicolare un’emozione piuttosto che un’altra, perciò è assente; il trucco da set copre e maschera l’animo esposto di un attore che sa ben lavorare, per cui viene eliminato; la fotografia non preordina, coglie spontaneamente, si lascia accecare dal bianco afoso metropolitano senza correzioni di sorta, oppure sfoca nel sole dei tramonti marini, perdendosi tra profili di dialoghi o primi piani; le riprese avvengono con camera a mano e sono mobili, sporche, in movimento continuo rispetto alla dinamica delle singole scene; il montaggio è impuro, quasi al servizio di una presa diretta; gli interpreti sono totalmente liberi nell’ascolto e fanno sfoggio di grande capacità di relazione, senza temere l’improvvisazione.
Giulia ne viene fuori con una sagoma iconica, più spenta di un’anima prettamente picaresca, un emblema di amore ed autogestione che di fatto non può reggersi da sola nel caos in cui abita. Chi le si ritrova accanto fugge dai suoi sbalzi di umore, dalle sue preoccupazioni vitali, come quella di avere un bambino per scampare la morte o ipotecarla, oppure si adegua ad un universo imperfetto dall’orizzonte corto, fatto di compromessi, mezze misure scaltre, accontentamenti dell’anima, che Giulia non riesce a comprendere.
Lei non sa sopprimere la selvaticità con cui si rapporta agli altri, non sa rinunciare, non sa articolare un corretto pensiero, non mantiene in ordine i suoi capelli raccolti in chignon che svettano e cascano, crepuscolari come la sua parabola, di una decadenza inevitabile e tristemente nota.
Di fatto non esiste una trama in Giulia, il suo spostarsi è la trama: e qui iniziano i lati che meno ci hanno convinto di un’opera detentrice invece di notevoli apprezzamenti, lodi al coraggio e alla bellezza, candidature a premi importanti, tra cui due Nastri d’argento come miglior commedia e miglior attrice ed un David di Donatello sempre come miglior interprete per la Palasciano.
Nonostante di certe categorie di film, avulse dalla retorica dell’esterofilia, sia sempre un bene parlarne e farne parlare, specie con un’attenzione elogiativa, in questo caso non possiamo sentire di accodarci a questi cori di soddisfazione, perché, saranno le aspettative o sarà l’occhio clinico, c’è qualcosa che non convince.
Giulia – Cast
Giulia vaga di luogo in luogo portandosi dietro un’anima in pena, in pena per cosa può essere chiaro, anzi meglio intuibile, ma anche poco appassionante, perché, di fatto, di eroine sfrenatamente anticonformiste, o deliberatamente border, o felicemente aliene alla collettività imbalsamata, il cinema, il teatro e la letteratura ne conoscono a milioni.
Non è questa rappresentazione/fotografia ad essere eccezionale, ad aggiungere un tassello in più alla nostra immaginazione, a cambiare il punto di vista rispetto ad un problema esistenziale che c’è sempre stato e si ripropone ad ogni cambio di generazione.
Inoltre non basta sviluppare un personaggio protagonista per fare un film: Joker, ad esempio, esiste a prescindere da chi lo interpreta, ha una storia, ha più storie che porta con sé; Joaquin Phoenix lo ha attraversato con un corpo ed un’umanità tali da mettere a rischio molte confort zone dell’interpretazione, inanellando poi una serie di atti coerenti con quell’indole disperata ed ossessionata, tutti deliberati verso uno scopo, detonatore, distruttivo, esemplificativo, quale che fosse, che in Giulia di fatto non c’è.
In lei manca un fine e questo, dopo un’iniziale fiducia, fiacca l’attenzione, rimanda ad una condizione già vista e già abitata, meglio ed in modo più suggestivo anche sul grande schermo. In particolare, restiamo con una sensazione residua di bocca asciutta, osservando come il personaggio di Giulia assuma su di sé tormenti interiori non accessibili, esposti paratatticamente, che possono interessare all’inizio, ma a lungo andare perdono fascino ed interesse, perché non si svelano e non si sveleranno, abdicando alla missione di coinvolgere chi li osserva.
Allo stesso modo Giulia si veste di incertezze interiori, talora quasi piccoli vezzi di insicurezza, che a volte ci sembrano ispirare tutt’altro che indecisione profonda, semmai risoluzione combattiva, aggressiva, una sempreverde non sanità mentale che spunta fuori come instancabile deus ex machina ogni volta in cui c’è bisogno di esasperare delle situazioni.
Ecco la problematicità esistenziale di Giulia più di una volta si trasforma in cenni di bipolarismo, piuttosto che in una foga di vita e di libertà come lascia intendere il sottotitolo. Questo perché non supportata da un arco narrativo personale un po’ più incisivo, né da un patrimonio intimo specifico: molto dell’icona Giulia sta nella sua sagoma, nei colori che si porta dietro, pelle bianca, maglietta verde, zaino marrone, capelli selvaggi, ma il comportamento è spesso generico, già visto, intuibile: la Palasciano disegna una barbona ostinata dell’esistenza, che alterna mutismo a capriccio, insofferenza a familiarità, più un desiderio mancato di maternità, che come il prezzemolo è spesso gettato e non approfondito in mezzo ad altri ingredienti consoni alla ricetta del disagio, fino all’immancabile cupio dissolvi in forma indiretta, poco detta, ma purtroppo indovinabile.
Non c’è un momento di commozione reale, non arriva, latita, nonostante la prontezza e la disponibilità di un cast elastico e funzionalissimo, e la bellezza improvvisa di molti giochi di luce naturali estremamente tematici, perfetti per l’estetica povera ed impressiva voluta dal De Caro.
Però, se la massima espressione di autonomia possibile è farsi una nuotata in mare, cantare stonati una canzone davanti ad un pubblico inspiegabilmente ebete ed annuente, bere da una bottiglietta di plastica malmessa, raccogliere oggetti dall’immondizia, restare in strada senza una casa per mezza notte, ecco non si riesce a gridare al personaggio-capolavoro, ma ad una favola molto soft sul male di vivere.
Non riusciamo ad essere vicini a Giulia e a volerle bene neppure quando libera un cavallo trovato per caso, momento alto e simbolico della sua “parabola”, situato vicino al finale, momento che in mezzo a questo mare di naturalezza sembra una pietra miliare volutamente e fastidiosamente conficcata ad un’ altezza strategica del tragitto.
Tale distanza emotiva dalla protagonista ci appare spiegabile dal momento che ammesso e non concesso di riuscire a sopportare le sue stranezze, ascrivendole allo stra-tradizionale bisogno di conciliare proprio mondo sano ma soccombente con insano mondo altrui vincente, con tutta la casualità costruita nella e dalla trama, zeppa di istanti giustapposti e non necessitati, a spese di una già sorvegliatissima verosimiglianza del tutto, un caso più o in caso in meno, che differenza apprezzabile può mai fare?
Cerchiamo di dimenticare una non sommessa noia delusa che ci ha provocato la visione del film, ferito da una sceneggiatura assente ed un personaggio abbastanza generico in sé, con una nota positiva: salviamo nella sua quasi totalità l’improvviso discorso-manifesto dalla malinconia brillante sulla metamorfosi decadente della critica cinematografica e sulla funzione e la preziosità dell’oggetto film, con cui uno dei personaggi invade e conclude una festa improvvisata sul terrazzo; dopotutto l’estate ha le sue prese di coscienza, che la coscienza non sa preventivare.