Frank Morris è veramente esistito. Per quanto incredibile possa sembrare la sua storia, è tutto vero, le incarcerazioni, il progetto, la fuga. Fu il primo e l’unico, assieme ai fratelli Anglin che lo seguirono nel giorno dell’evasione, a lasciare Alcatraz grazie solo alla sua abilità. In Fuga da Alcatraz possiamo rivivere, sotto l’occhio vigile di Don Siegel, le gesta di un uomo pronto a rischiare tutto per la propria libertà, una partita a scacchi che vedrà un solo vincitore, senza patte.
Fuga da Alcatraz il cult di Don Siegel
Nel film di Don Siegel, Fuga da Alcatraz del 1979, Morris è interpretato da Clint Eastwood, che si cala perfettamente nella parte del taciturno galeotto con il Q.I. “superiore”, come viene sottolineato in modo piuttosto didascalico dalla cartella personale tenuta in mano dal Direttore del carcere. La classe della regia di Don Siegel, però, è nell’espressione sogghignante del Direttore che legge la cartella: quell’annotazione è praticamente una sfida, e il Direttore è pronto ad accettarla.
Il Direttore, interpretato da un efficace caratterista, Patrick McGoohan, sarà l’antagonista, e più ancora una chiara metafora , ma soprattutto una gran carogna. Così sappiamo fin dall’inizio da che parte stare: da quella del galeotto, ovviamente. Morris è ritratto come un uomo che non vuole fare del male, se non per legittima difesa, probabilmente è in carcere perché ha avuto sfortuna, ed è ad Alcatraz perché dalle altre carceri riusciva sempre a fuggire. Nei pochi minuti che coprono l’inizio del film e la presentazione dei titoli di testa, il personaggio viene introdotto in silenzio, senza nessun dialogo. E’ una notte di tempesta, le inquadrature cadenzate da un montaggio lento e inesorabile trascinano un uomo all’inferno, con l’unica frase beffarda a chiudere il prologo, rivolta da un secondino a Morris mentre serra la porta della cella: “Benvenuto ad Alcatraz”.
Fuga da Alcatraz recensione e trama
L’inferno è un posto dove la ragione è morta, come ci ricorda il Sommo poeta nostrano. Ed Alcatraz, una prigione costruita su un isolotto nella baia di San Francisco, è esattamente questo: un posto dove lo scopo non è la riabilitazione, dove tutti i prigionieri hanno rinunciato a sognare la libertà e la redenzione, rassegnati in attesa della fine della pena da scontare, o della loro stessa vita.
Il Direttore del carcere, col suo fare intransigente, si fa quindi metafora di questa condizione, soffocando sul nascere non solo i tentativi di evasione, o di aperta ribellione, ma anche e soprattutto di negazione del sistema. Chiunque provi a sognare verrà punito, come accade al povero Doc, al quale verranno sequestrati i pennelli e i quadri, unica barriera al dolore e alla follia che cerca di distruggerlo ogni giorno che passa in carcere. Doc si mutilerà di fronte al Direttore, che lo aveva punito in questo modo per una meschina vendetta.
Anche Frank Morris è una metafora, ovviamente di segno opposto al Direttore del carcere: Frank è la libertà, lo spirito di iniziativa, la persona intelligente che i burocrati invidiosi vorrebbero buttare giù. Inevitabile quindi che, oltre agli spettatori, anche gli altri carcerati parteggino per lui, aiutandolo in tutti i modi possibili. Tra questi sodali si distinguono English, un nero pluriomicida per legittima difesa, Charley, un ladro di macchine e Tornasole, un altro carcerato dall’aria totalmente innocua. Anche i fratelli Anglin sembrano semplicemente dei ragazzacci, non persone davvero malvagie che meritano Alcatraz, il posto dove mandano quelli che non rispettano le regole della prigione.
I carcerati, insomma, sono caratterizzati in modo più sentito e toccante rispetto ai secondini, ritratti al meglio come indifferenti alla sofferenza dei detenuti, se non sadici e torturatori. Lo scopo è chiaro: portare lo spettatore a sentirsi come un carcerato, vittima del sistema e della prepotenza dei governanti, intrappolato in una vita che non vuole, desideroso di raggiungere una insperata libertà.
L’aria di tensione che si respira in ogni fotogramma è palpabile, i protagonisti che organizzano l’evasione vivono rischiando costantemente di essere scoperti, cosa che causerebbe loro indicibili sofferenze, l’isolamento e la fine di ogni speranza. Morris/Eastwood però è granitico come sempre, flirta con la fortuna, corre dei rischi calcolati (come quando sottrae un ventilatore per trasformarlo in un trapano), impara a costruire un rudimentale saldatore per fabbricarsi un attrezzo per scavare, sconfigge un pazzo assassino che lo aveva preso di mira, arrivando infine al confronto col Direttore. E il risultato dello scontro, alla luce dell’alba, è un fiore lasciato su una scogliera della baia di San Francisco, una firma: Morris e gli Anglin sono riusciti dove tutti gli altri avevano fallito, battendo il Direttore e il sistema intero.
Poco importa che siamo sopravvissuti alla fuga, che le acque gelate della baia di San Francisco li abbiano uccisi, o che uno squalo li abbia divorati mentre nuotavano verso la libertà. Quello che conta è che abbiano lasciato la prigione ai loro termini, non a quelli del Direttore. Il quale, fedele al suo personaggio, non può far altro che, in un eccesso di meschinità, certificare la morte dei tre pur non avendone alcuna prova, perché, come tutti gli stupidi, è incapace di riconoscere ed accettare la sconfitta.
E il sorriso stampato sulla testa di cartone che occupa la branda di Morris alla fine della storia, è l’ultimo scherno diretto dall’evaso contro l’ottusità del potere, una magnifica firma a suggellare la vittoria dell’intelligenza e della fantasia sull’idiozia dei burocrati e degli incapaci.