Finale a sorpresa ovvero del fare un film nel film, o un film sul fare film, senza far vedere una sequenza girata del film in preparazione: tutto con integrità, senso della misura e discreto sarcasmo. Sul confine indiscriminabile tra realtà e finzione, struttura ed improvvisazione, loop ed epiloghi, epicità e prosaicità: tutto fa arte e talento, nel bene apparente e, ancor più, nel male sottostante.
Probabilmente non si salva nessuno dal circo spettacolare che nasce, marcisce e rifiorisce dietro la macchina da presa: un mondo che agisce in uno stato di allucinazione del sé, benedetto, legittimato, strapagato, con enorme, spesso ingiustificata, aspettativa di massa.
Così il duo arguto Mariano Chon e Gaston Duprat è tornato in competizione alla 78. Mostra Internazionale del cinema di Venezia, dopo l’ottimo Il cittadino illustre (2016), con un’altra opera che smaschera l’opera, o meglio chi realizza l’opera, mettendo in crisi e denudando autore, regista ed attore, demiurghi dell’immaginazione popolare e personale schiaffata su grande schermo, protagonisti di vite più grandi di loro, votati ad un’ immensità fittizia, guidati da un mix irresistibile di interessi propri, grazia catastrofica ed idiota casualità.
Finale a sorpresa – Trama
Finale a sorpresa, uscito in sala lo scorso aprile, parte dalla volontà di un ricco miliardario del settore farmaceutico, ormai anziano, il quale vuole passare alla storia in qualche modo: non basta una fondazione, praticamente inutilizzata, non è sufficiente un ponte a suo nome, meglio un film, un prodotto che si stampi nel cuore e, forse, anche, ma non è detto, nel cervello di qualsiasi sconosciuto capiti ad occhio.
Oggetto del lungometraggio è chiaramente un libro al top, come chi ne pretende i diritti: una storia epica di drammatica rivalità tra fratelli, forse un indigesto mèlo fuori tempo massimo, ma è firmata da un premio Nobel e tanto basta per acclararne pedigree e visibilità.
Artigiani del film, neanche a dirlo, i primi tra i primi, i migliori per tutti e per nessuno, i più gettonati, quelli del successo sicuro in sala stampa e ai botteghini. A partire dalla regista, Lola Cueves (Penelope Cruz), personalità forte e decisa, professionista sulla cresta dell’onda, istintiva, furba, fortemente di moda per la sue bizzarre realizzazioni, che sono acclamate o detestate senza mezze misure, nonchè lesbica, che nell’ambiente fa punteggio e curiosità.
Accanto a lei, Ivàn Torres (Oscar Martinez), maestro del teatro puro e dedicato, perfezionista del processo creativo, pedagogo dalle doti cristalline e divisive, cultore dei grandi del passato e della sperimentazione più originale ed apprezzata, glorificato dalla critica, ignorato dalla massa che lui stesso depreca per l’involuzione che imprime all’arte recitativa.
Sua nemesi e compagno di scena Fèlix Rivero (Antonio Banderas), sex symbol dall’età imprecisata, così come imprecisato è il numero delle sue fidanzate, con trentacinque premi vinti, oltre cento film fatti, uno stuolo inimmaginabile di follower, una vita divisa tra letti sconosciuti, dirette instagram, blockbuster transnazionali, popolarità gradassa ed ingiustificata autostima.
Finale a sorpresa segue lo speziato trio nel contrastato e faticoso processo di prove, ad un passo dall’inizio vero e proprio delle riprese, con gli ego dei rispettivi artisti sollecitati al massimo per le differenti metodologie utilizzate, a volte totalmente dissonanti, a volte di impervia comprensione, tra esercizi distruttivi e caratteri pregni di talento o di spudorata imbecillità.
Il finale non sarà di dolcezza familiare, ma nemmeno di popolare soddisfazione; il finale non sarà nemmeno un finale: perché il duello umano ed artistico iniziato è solo la sintesi di un paradigma senza fine che consacra la lotta per primeggiare davanti ai riflettori ad un’ infinita prossima mossa, ovviamente sempre più lontana da umano scrupolo.
Finale a sorpresa – Recensione
Finale a sorpresa prende su di sé tutta l’intelligenza dei suoi autori e direttori e la trasfonde nel declinare una prospettiva meta filmica, che non arriva ad apici inesplorati e razzola con grande stile tra i bagliori e le ombre del popolo che fa cinema: ingurgita e vomita manie con una schiettezza paurosa, mostrando come sia facile per chi sta davanti ad un pubblico, rovinarsi la vita e poi farne un capolavoro, a fasi alterne, snaturate ed innocentemente raccontate.
Ritmo lineare, montaggio paratattico, trovate intrinseche di magistrale stupidità ed analoghi recitativi usciti fuori dall’Accademia russa, Finale a sorpresa diverte e spiazza, intrattiene con occhio critico rispetto al suo pubblico di riferimento, rischiando di restare fabula amara di addetti e per addetti, un discorso in famiglia ammirevole, ma con respiro basso. Eppure, non per questo si tira indietro.
Spazi algidi e simmetrici, di architetture monolitiche, granitiche, giganteggiano nelle inquadrature, disegnando ambienti troppo grandi e troppo vuoti per le persone che lo riempiono. Un emblema, probabilmente, della natura di un mondo effimero che si muove sulla scia di somme di tempo, denaro, attenzione, mediatica ed umana, tributate loro in modo decisamente sproporzionato rispetto alla vita “normale”. Il cinema come macchina dei sogni alimentata da incubi e bassezze ottuse, che da una parte fa volare, dall’altra distrae dalla fossa che nel frattempo spala.
Soldi, fama, capacità da barattare, copertine, interviste, necessità di lasciare il proprio segno nella storia, prima della morte, contro la morte, in nome dell’arte, o del sè, per un io mai saturo di pavoneggiare se stesso con approcci differenti ma egualmente tossici.
Il divo social, delle ville sparse sul pianeta, delle fidanzate in contemporanea, dei “tanti figli-tante madri” contro il professore maturo, il rigore dell’autocontrollo, l’umiltà sublimata in decadenza, mordente acido ed isolamento quasi sempre distruttivo, praticamente il fatalismo antimoderno e la contemporaneita più volgare: queste le due forze in campo che, paradossalmente, meglio incarnano la rivalità dei due fratelli protagonisti del film dentro il film.
A guidarli, blandirli, sedurli, schiacciarli, imbarazzarli, castrarli, raggirarli, compiangerli, una testa di serie, “la femmina in pantaloni e sigaro”, matta d’ordinanza, autoassolutrice seriale, auto ascoltatrice compulsiva, necessariamente pratica dell’amore libero, o diverso o fluido, che inventa esercizi, traumatizza per il risultato, se può si deresponsabilizza, e se non può, basta un pianto rivelatore a confessarla e ad assolverla, pronta per la prossima passerella, con al massimo una cicatrice in più già trasformata in bel tatuaggio. Tanto l’arte è sensibilità: chi siamo per parlarne.
Finale a sorpresa è una commedia nera, dall’ironia composta e strutturata, che prende sul serio crismi, mitologie ed indulgenze di certi addetti ai lavori, smascherandone ambiguità, piccolezze e contraddizioni imbarazzanti. E’ un metafilm che non si fregia di ideologie, sfregiandone parecchie, dal relativismo dei gusti, alla pigrizia della critica, dal disimpegno del denaro, alla trend modaiolo, un imbrigliato spasso umoristico per chi il settore lo agisce, e per chi lo annusa dall’esterno.
Finale a sorpresa sfiora il grottesco senza mai denunciarlo, con fierezza cattiva e divertita, cavalcando una feroce e lucida verosimiglianza, fino al paradosso drammatico prefinale, trasformato con tempismo sopraffino in luccicante paillettes artistica.
Finale a sorpresa – Cast
Dalla sua parte possiede un cast di star dalle doti indiscutibili primo far tutti Ivan-Martinez, ex cittadino illustre dell’omonimo film, diretto dagli stessi registi, Coppa Volpi a Venezia 73. come miglior attore protagonista, che qui sfodera presenza scenica, indole e verve dell’intellettuale consumato e tradito, isolatosi nel suo sdegno meritorio ed elitario, uno Stanislavskj contemporaneo non immune dall’ invidia raschiatrice e traditrice contro gli immeritevoli che lo circondano.
La nonchalance di Felix-Banderas nel prendersi sul serio senza prendersi sul serio lo colloca esattamente dove deve stare senza sbavature di sorta: impossibile digerire male la sua faccia di pane, nonostante l’ età non sia più da toyboy, ma questo, ovviamente, non è un problema maschile, specie nel campo dello spettacolo.
Curiosa la Lola della Cruz, che maschera la propria dolcezza femminile in un puntiglio fanatico, sessualmente schierato, estroso ed ipersensibile: a lei tutto è concesso, un camaleonte nascosto in un’ impressiva e scomposta chioma fulva di leonessa, maledetta, acclamata e strana, i tre aggettivi del successo assicurato.
Tre personaggi cruciali, critici, fondamentalisti dell’effimero, esperti dirottatori del caso, della mediocrità e dell’illuminazione artistica commovente, uniti insieme in una sinergia che usa il clichè senza accomodarcisi sopra più di tanto, ma portandolo fino in fondo.
A chi ascolta questa storia resta l’amaro in bocca di un finale che non concilia nè solleva, perchè chi gioca a scrivere sogni non è quasi mai un santo, anzi, per avere gloria deve conoscere ed esercitare tutti i trucchi e le facezie crudeli di un universo fragilissimo ed iperipnotico che “non sarà il migliore, ma”, come rappava un poeta, “è il migliore a farvelo credere.”