Matteo (Riccardo Scamarcio) è un ricco businessman romano, dedito a una vita di vizi, divertimenti, sesso e stravaganze consentite dal suo stile di vita elevato. Suo fratello Arturo (Valerio Mastandrea) è esattamente l’opposto: professore universitario con un figlio da un matrimonio fallito, si accontenta della sua vita tranquilla. Quando Matteo però scopre che il fratello ha un tumore al cervello incurabile, il suo scopo diventa quello di far passare gli ultimi mesi di Arturo nel modo più positivo e liberatorio possibile, a partire dal non dirgli la verità sulla sua malattia.
Il secondo film diretto da Valeria Golino smorza i toni del precedente Miele, pur continuando a navigare nel genere drammatico. Portando in scena comunque sempre temi impegnativi, come la morte e la malattia, ancora una volta la Golino sceglie di mettere in scena il punto di vista di un testimone esterno della morte in questione e del suo rapporto con il diretto interessato. In questo caso il protagonista è Matteo, all’apparenza uno stereotipato omosessuale superficiale e vanesio, che ha solo avventure occasionali e si dedica alla chirurgia estetica di parti del corpo superflue, come ad esempio i polpacci. Scavando in profondità però, Matteo è un maniaco del controllo che si improvvisa burattinaio della vita dei suoi parenti e allo stesso tempo un bambinone cresciuto, che non sa accettare la morte e che usa i suoi vasti mezzi per mascherare da incondizionata generosità il suo ostinato rifiuto del lutto e della tristezza. Personaggio bello, eccessivo, esibizionista, troppo grande per la sua famiglia e per lo stesso schermo, il Matteo di Riccardo Scamarcio occupa qualsiasi scena e oscura la prova, seppur ammirevole degli attori coprotagonisti.
Scamarcio incapsula perfettamente l’aura omnicomprensiva del suo personaggio, che inghiotte ogni altra figura della sua vita, dal compagno platonico che lui usa come “dama di compagnia”, al fratello del quale vuole trasformare la visione del mondo per farlo vivere più come lui. Ed è così che in effetti succede. Arturo man mano che si avvicina, inconsapevolmente, alla morte, comincia a “vivere” di più, o almeno a vivere come Matteo pensa che sia il modo giusto di vivere: senza fare piani, spendendo soldi e concedendosi quei vizi futili e talvolta malsani. In sostanza, l’Euforia del titolo.
La trasformazione di Arturo però non è mai raccontata in modo acritico. Il modello di Matteo resta comunque un palliativo per non affrontare il lutto. E infatti, l’interazione tra i due fratelli non è più una strada a senso unico, ma diventa poco a poco reciproca. Matteo diventa consapevole dell’importanza di affetti stabili nella vita delle persone, ma è altrettanto consapevole dei suoi limiti. Impara però a tirarsi indietro, anche se è esattamente alla fine. E quindi la scena finale acquista una forza particolare, in cui i due fratelli, sotto un cielo ricco di presagio, accettano finalmente la loro impossibilità di cambiare il futuro.
La regia della Golino è ancora leggermente acerba: lo stile di ripresa passa da strettissimi primi piani stile cinema veritè, a composizioni di piani lunghi con molteplicità di attori, a scelte di immagini più evocative e allegoriche. Tutte cose eseguite molto bene, ma leggermente slegate tra di loro. In particolare sembra interessarle il valore simbolico di alcuni elementi, specialmente il puzzle (di cui manca un pezzo) e, in maniera più interessante gli uccelli, la cui allegoria segue tre fasi. Infatti in una delle scene iniziali, un personaggio secondario nota la presenza di gabbiani a Roma. Durante il primo grave episodio di manifestazione della malattia di Arturo, Matteo è colpito in faccia da un pesce caduto dalla bocca di un gabbiano. E poi nel finale, lo stormo di uccelli diventa appunto simbolo della accettazione del destino funesto. Gli uccelli quindi sono l’esternazione visiva della malattia agli occhi di Matteo: dalla pura constatazione di questa, alla realtà che letteralmente lo prende a schiaffi in faccia, fino alla sua accettazione.
Nonostante la densità di idee e di simbolismi, il film scorre lineare e senza intoppi, favorito da un cast in forma. La direzione degli attori è impeccabile, a partire da Riccardo Scamarcio che con il ruolo di Matteo raggiunge forse il picco della sua carriera. Meritata la sua candidatura ai David di Donatello.
Valeria Golino si dimostra ancora una volta narratrice di storie importanti con uno stile avvincente e unico, che di film in film continuerà ad affinare sempre di più.
Voto Autore [usr 3,0]