Ron Howard torna in sala. O meglio, ci sarebbe tornato se questo maledetto 2020 non avesse chiuso i cinema di mezzo mondo impedendo anche agli autori più blasonati del cinema contemporaneo di portare nel buio delle sale i loro nuovi lavori. Ma in un’epoca come la nostra, in cui le vie del cinema sono infinite, il suo nuovo film, Elegia Americana, ha potuto raggiungere direttamente le case dei cinefili di tutto il mondo, sbarcando su Netflix lo scorso 24 novembre. Il film è tratto dall’omonimo romanzo autobiografico di J.D. Vance, caso letterario negli Stati Uniti qualche anno fa. E per una nuova forma di distribuzione della sua pellicola, uno dei registi più intrinsecamente legati alla sala, sembra cambiare almeno in parte la sua poetica, portando in scena il volto più oscuro del sogno americano.
La storia racconta le vicende autobiografiche del giovane J.D. Vance, tra il 1997 e il 2011. Cresciuto nel sud dell’Ohio, nella terra dei “campagnoli” e dei “montanari”, il ragazzo ha avuto un’infanzia tutt’altro che semplice, con una madre tossicodipendente e psicologicamente disturbata e una nonna che, a fatica, cerca di tenere insieme una famiglia disastrata, essendo essa “la cosa più importante” dal suo punto di vista. Ed è proprio grazie agli insegnamenti della nonna che J.D. riesce a costruirsi, mattoncino dopo mattoncino, la vita dei suoi sogni. Studia Legge a Yale, è fidanzato con la bella Usha, che lo ama alla follia, e sta cercando di trovare il lavoro perfetto per lui. Proprio nella settimana dei colloqui decisivi, però, la sorella Lindsay lo richiama a casa per un’emergenza: sua madre ha ripreso a drogarsi ed è andata in overdose di eroina. Il ragazzo è sospeso tra la sua brama di riscatto e i vincoli famigliari, ma tornerà nell’estrema provincia americana per cercare di salvare, una volta per tutte, quella madre che, nonostante tutto, lui sente di amare.
Per parlare del nuovo film di Ron Howard non si può che cominciare dalla fine, ovvero dalle recensioni incredibilmente negative (per usare un eufemismo) che i critici americani hanno scritto a proposito di Elegia Americana. Il fatto è già sconvolgente di per sé, essendo l’ex Richie Cunningham di Happy Days è uno dei registi contemporanei più elogiati dalla critica d’oltreoceano, tanto che molto spesso ha potuto sfruttare questo vantaggio (non sempre totalmente giustificato) per accrescere il suo potere contrattuale, arrivando a dirigere, ad esempio, un blockbuster fuori dal suo range come Solo: A Star Wars Story. Elegia Americana è stato definito, solo per citare alcuni commenti, “un film terribile”, “ridicolmente orrendo”, “la pellicola più vergognosa dell’anno”, “insulso e insultante verso la provincia americana”. Insomma, un massacro mediatico senza precedenti per il regista, che eppure negli ultimi anni non ha certo brillato come in passato. In realtà Elegia Americana, pur avendo molti difetti strutturali che avremo modo di analizzare, non è un film così terribile, e certamente non è il film peggiore della carriera del regista, come è stato definito da molti, che probabilmente si sono dimenticati di Inferno o del già citato Solo.
Certamente è cambiato il registro adottato da Howard, che abbandona le grandi storie e i grandi eroi per realizzare un film sul silenzioso eroismo della gente comune, sull’intensità significante dell’ordinario. Di sicuro non si era mai visto questo lato del regista. E tuttavia non lo si può condannare soltanto per aver realizzato un film fuori dalle sue corde abituali. Il Ron Howard di Elegia Americana è un regista più intimo e contemplativo, a volte addirittura un po’ troppo, come dimostrano alcune scelte (le inutili soggettive stile videogame della scena della cena di lavoro), che abbandona gli eroi alla Niki Lauda del superbo Rush o del baleniere Owen Chase di Heart of the Sea, per farsi per la prima volta portavoce dell’“Americaness” pura e semplice, andando a scavare nella provincia per ricavare, da essa, la vera essenza della sua nazione. In questo senso colpisce una volta di più la sempre più frequente incapacità italiana di tradurre i titoli originali delle opere. Il romanzo di J.D. Vance e il film che da esso è tratto si intitolano in inglese Hillbilly Elegy. Il primo termine fa parte del linguaggio popolare americano, ed indica le popolazioni di campagna o di montagna, connotandole in toni non certo positivi ma nemmeno del tutto dispregiativi. Una traduzione adeguata potrebbe essere “campagnolo” o “montanaro”. Ma occhio a non confonderlo con il termine Redneck, ovvero “bifolco”, quello sì pesantemente insultante per chi viene dalla provincia, tanto che il protagonista si altera quando un suo superiore fa una battuta di quel tipo. Elegia Americana è un titolo certamente suggestivo e accattivante, ma profondamente scorretto in termini ideologici, nel definire ciò che il film si propone di essere.
Come molto spesso accade, il nuovo film di Ron Howard è una riflessione sul sempreverde tema del “sogno americano”, questa volta non esaltato con entusiasmo, come quasi sempre accade, ma analizzato attraverso un pessimismo certamente cupo, ma anche molto più onesto e legato alla realtà. Il giovane J.D. fa fatica ad emergere in un mondo che non è il suo, quello degli accademici di Yale e dei grandi avvocati cittadini, e non dà mai l’impressione di essere preso sul serio dai suoi interlocutori, che lui vorrebbe diventassero i suoi capi. Ciò non significa che non ce la possa fare, e infatti nelle didascalie finali il film ci dimostra, con tanto di foto del J.D. originale, che il ragazzo ce l’ha fatta. Tuttavia il messaggio che passa guardando Elegia Americana è che il sogno americano non è davvero per tutti, o che forse non esiste nemmeno più. Si deve sempre avere una base solida da cui partire, altrimenti occorre spezzarsi la schiena due volte per ottenere (forse), a fatica, ciò che altri raggiungono con relativa facilità. L’idea delle storie “alla Walt Disney”, di uomini di provincia che vanno in città e diventano dei miti assoluti, non è più attuabile nell’America del XXI secolo. È una presa di posizione netta e coraggiosa da parte di un regista che finora mai aveva messo in discussione così nettamente i capisaldi della propria nazione. Se fosse stata perfetta anche la resa strettamente cinematografica della pellicola, certamente Ron Howard avrebbe fatto tombola.
Il film, infatti, purtroppo non dà mai l’impressione di decollare ed esprimersi secondo tutto il proprio potenziale. Il motivo di ciò è senza dubbio da attribuire in prima istanza alla sceneggiatura, scritta da Vanessa Taylor (The Shape of Water). La struttura del film è eccessivamente confusionaria, con le due linee temporali, quella del J.D. ragazzo e quella del suo ritorno a casa, intrecciate senza criterio e con poca lucidità. In più viene inserito l’inutile flashback sulla giovinezza della nonna che non presenta nessuna ragione effettiva e non viene nemmeno sviluppato come d’uopo, ma solo accennato sporadicamente. Inoltre colpisce la pochezza dei dialoghi. Non c’è nemmeno una battuta davvero memorabile in Elegia Americana, pur non mancando tutti i presupposti che solitamente ne generano diverse all’interno di pellicole simili. La gestione dei momenti più intimi e drammatici del film lascia a desiderare soprattutto per questa banalità di fondo che caratterizza le battute degli interpreti. Il fatto che anche un veterano della regia come Ron Howard appaia sottotono praticamente lungo tutto il corso della pellicola, è da attribuire non all’invecchiamento del regista (come molti critici americani hanno commentato, in modo glaciale e gratuito), ma proprio ad un copione che fa acqua dall’inizio alla fine. Se si guarda alla filmografia del regista, e principalmente ai suoi film più riusciti, che, per motivi diversi tra loro, restano, Il Grinch, Rush e Heart of the Sea, esse erano tutte pellicole dalla sceneggiatura quadrata e ineccepibile, senza fronzoli, ma anche senza gli enormi difetti strutturali che il lavoro della Taylor presenta in modo evidente. L’aspetto più irritante nella mala gestio generale di Elegia Americana è quello storico, centrale nel libro di Vance. Gli anni che la storia illustra, tra il 1997 e il 2011 hanno costituito uno dei periodi più interessanti forse dell’intera storia americana (dagli scandali sessuali di Clinton, all’11/09 e ai suoi strascichi). Eppure essi vengono solo evocati nel film da semplici comparsate televisive, che né caratterizzano maggiormente i personaggi, né danno qualche chiave di lettura in più in fase di interpretazione della storia. Tanto valeva omettere ogni riferimento storico, a questo punto.
L’aspetto che rende Elegia Americana un film accettabile e non così tremendo, nonostante tutte le sue mancanze, è senza dubbio quello legato alle interpretazioni di un cast meraviglioso. Dominano la scena, indubbiamente, le due figure chiave nella vita di J.D., ovvero la madre Bev e la nonna Mamaw. La prima ha il volto di una delle migliori attrici sulla piazza nella Hollywood contemporanea, ovvero Amy Adams. Il suo personaggio e la sua interpretazione sono semplicemente sublimi. Bev è una donna già con problemi per conto suo, che entra quasi per legittima difesa nel tunnel della droga (prima attraverso gli antidolorifici che racimola nell’ospedale dove lavora, poi con le droghe pesanti) e ci trascina indirettamente dentro, come tragicamente sempre accade, tutta la sua famiglia, che le sfugge di mano. I figli, pur volendole bene, non si sentono più al sicuro nello stare con lei e, almeno per quanto riguarda J.D., si avvicinano quasi di conseguenza alla nonna. La prova di Amy Adams fa pensare ad una sua inevitabile candidatura ai maggiori premi cinematografici, e, soprattutto nella seconda parte, dove la donna appare invecchiata e provata da anni di dipendenze, fa emergere una domanda in ogni spettatore attento ai progetti futuri delle majors: perché non si riesce a sviluppare questo benedetto biopic su Janis Joplin con Amy Adams come protagonista?! Il personaggio di Bev ricorda sotto molti punti di vista la celebre stella del rock e l’attrice ha portato sullo schermo la prova migliore della sua (già straordinaria) carriera. Quell’Oscar che le è sfuggito per ben sei volte non è mai sembrato così vicino. La nonna invece, è interpretata da una delle più importanti leggende della Settima Arte ancora in vita, Glenn Close. L’attrice del Connecticut non sfoderava una prova del genere da tempo immemore, e rende al meglio un personaggio eccezionale, come quello di Mamaw. La donna è il più classico esempio di “saggio ignorante di montagna”, per dirla con Guccini. Non è certo istruita ed è persino estremamente rozza nei modi, eppure appare come il vero cuore morale del film, la roccia su cui si àncora un’intera famiglia sull’orlo dell’esplosione. Una donna che insegna a suo nipote a vivere e che di fatto finisce per assumere sulle sue spalle il ruolo che Bev non riesce a svolgere adeguatamente. L’impressione è che, nella categoria Miglior attrice non protagonista dei prossimi Oscar, non potrà mancare nemmeno il suo nome. Menzione d’onore va anche data ai due interpreti di J.D., ovvero Gabriel Basso per il protagonista adulto e Owen Asztalos per quello adolescente. In modo particolare quest’ultimo stupisce per talento e vederlo recitare rappresenta uno dei massimi piaceri suscitati da Elegia Americana.
Il nuovo film di Ron Howard, insomma, è meglio di quanto i critici d’oltreoceano l’hanno descritto. Se ci fosse stata una maggiore attenzione in fase produttiva e di scrittura, probabilmente staremmo parlando di uno dei titoli più interessanti usciti in questo anomalo anno. Ma la pellicola è quella che si può vedere su Netflix, ovvero un film senza lode e senza infamia, che racconta gli Stati Uniti contemporanei molto peggio di come ci si aspetterebbe e in modo completamente estraneo a quello del libro, ma che può comunque essere apprezzata dal pubblico generalista, che in fin dei conti è quello dominante.