È stata la mano di Dio: trama
È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino racconta una vicenda semi-autobiografica ambientata negli anni ottanta. Il film ha per protagonista l’adolescente Fabietto, ammiratore di Maradona, e che, in seguito ad un evento tragico, si ritroverà ad interrogarsi su quale sia la sua strada nel mondo.
È stata la mano di Dio: recensione
È stata la mano di Dio, presentato a Venezia 78, è un’opera insolita nella filmografia di Paolo Sorrentino. Questo film, come annunciato già mesi fa dallo stesso Sorrentino, ha molto di autobiografico e già questo dettaglio dovrebbe far pensare ad una pellicola diversa dalle precedenti del regista.
Siamo lontani da La grande bellezza, che pure raccontava la solitudine, come in parte avviene anche in questo film. È stata la mano di Dio tratta la solitudine e la difficoltà di trovare il proprio posto nel mondo attraverso un linguaggio decisamente meno allegorico e barocco, quindi meno “sorrentiniano”, rispetto al solito. Per questo più convenzionale, ma non meno interessante.
Nel narrare la vicenda di Fabietto (Filippo Scotti) il film raggiunge momenti di grande coinvolgimento emotivo, molto di più di quanto fosse mai successo negli ultimi film di Sorrentino.
Sorrentino riesce a raccontare le emozioni con la regia, con le pure immagini, con l’ausilio di poche parole, parole che assumono un peso maggiore solo se rapportate alle immagini che accompagnano. Le immagini qui hanno un valore enorme se pensiamo che rispetto a La grande bellezza o a Loro – ma in generale a tutta la filmografia di Sorrentino – la colonna sonora ha poco rilievo. È stata la mano di Dio è un film che fa del silenzio il protagonista di molte scene, come la sequenza iniziale, che ci presenta la Napoli in cui si svolgerà il film e che ricorda l’inizio di Reality di Matteo Garrone (a testimonianza di come questi due registi, così diversi nello stile, abbiano in realtà una sensibilità molto simile quando si tratta di fare grande cinema).
Sorrentino qui non affronta alcun tipo di critica sociale, ma parla di una storia umana e intima, che attraversa moltissime tappe di quello che è il suo percorso personale. Non solo Maradona, come suggerito dal titolo, ma anche l’amore per il cinema, in particolare per Fellini. Il cinema qui è la salvezza a cui si aggrappa il protagonista Fabietto, che, parafrasando proprio Fellini, vede in esso una fuga dalla realtà che non gli piace più.
In realtà in questo film si ride anche. E tanto. La commedia è concentrata nella prima parte del film e in qualche modo prepara a ciò che lo spettatore proverà nella seconda parte.
Il tono del film cambia in seguito ad un evento che sarà spartiacque nella vita di Fabietto e dello stesso Sorrentino. Questa seconda parte forse corre un po’ troppo e racconta troppe cose perché possano essere bene approfondite. Tuttavia è il momento in cui Sorrentino si apre di più e in cui racconta se stesso sullo schermo, senza egocentrismo, ma tessendo una storia che è universale e in cui può riconoscersi chiunque.
Per farlo chiama con sé il suo attore per eccellenza, Toni Servillo, che per l’occasione si toglie la tipica maschera che abbiamo visto negli altri film del regista Premio Oscar, per trasformarsi invece in un padre umano e affettuoso. Merita di essere citata anche Teresa Saponangelo, nel ruolo della madre di Fabietto, personaggio che per la sua dolcezza e simpatia non può non lasciare il segno.
Al netto di qualche difetto, come i già citati problemi della seconda parte È stata la mano di Dio è uno dei film più riusciti di Paolo Sorrentino, il più personale e il più commovente. E quello in cui il suo amore per il cinema emerge di più. Non è un amore ostentato, come capita spesso in film che esaltano la settima arte. Si tratta invece di un sentimento più profondo, attraverso cui Sorrentino sembra volerci raccontare come è diventato Sorrentino.