Drive my car, ossia guida la mia macchina, entra nel mio mondo, siedi davanti al volante, accendi il motore e parti. Prendi me e il mio mistero e portaci a fare un giro, prendi il mio dentro e la sua miseria e abitaci: tu hai il permesso, fallo, fallo come sai fare tu, traghettaci. Non ti so ancora dire dove, ma tanto quando sarò arrivato io, lo sarai anche tu, e lo sapremo entrambi. Abbiamo uno squarcio da attraversare, poco non ci vorrà, ma qualcosa ci aspetta laggiù, lo senti, no? Fretta non ce n’è: il tempo ci deve parecchio e noi riscuoteremo; oltre il finestrino cammina il resto, cammina almeno come noi, e ci darà una mano, senza volere, né sapere, senza capire, ma ce la darà.
Ryusuke Hamaguchi, artista giapponese di talento e sguardo rari, testimone in qualche modo dell’intima epicità del sensei Kore’eda, con il suo ottavo lungometraggio fa del 2021 l’ anno della propria consacrazione internazionale: dopo l’Orso d’argento per il delizioso Il gioco del destino e della fantasia alla scorsa Berlinale, ottiene grazie a Drive my car il Prix du scenario, premio per la sceneggiatura, al 74. Festival di Cannes, dimostrando la qualità luminosa della sua voce autoriale.
Drive my car – trama
La macchina cui fa riferimento il titolo è una Saab rossa, che spicca come mosca bianca nella ferraglia metropolitana, piccolo gioiello di indomita nobiltà, oggetto-segno di un tempo migliore, rigorosamente passato e di un idealismo barricato. E’ il regno di Yusuke (Hidetoshi Nishijima), regista teatrale, che ama guidarla per recarsi al lavoro sentendovi la voce registrata su audiocassette della moglie, la bellissima Oto (Reika Kirishima): lei ripete le battute del copione, lui le memorizza e studia.
La donna, dopo un passato di attrice, si è riscoperta sceneggiatrice tv ed ha il dono di partorire storie, di frequente a sfondo erotico, storie che racconta quasi in trance al marito dopo aver fatto l’amore con lui, ma di cui ricorda poco o niente il giorno dopo: nella saab, rosso passione, capita che Yusuke le ricordi la trama che aveva inventato nello scorso amplesso notturno e lei prenda utili appunti.
Equilibrio rarefatto e funzionale tra i due, se non fosse per alcuni eventi passati, presenti e di poco futuri che rendono enigmatico e fatale il loro legame: entrambi hanno perduto la loro unica figlia, una bambina di tre anni per una polmonite; Oto è infedele ed il marito l’ha segretamente scoperta; la sera in cui dovrebbero parlarsi per esplicita richiesta di lei, un’emorragia cerebrale uccide la donna che muore sola nel loro appartamento mentre Yusuke rincasa tardi trovandola già senza vita.
A questo punto interviene una cesura nel film: entrano i titoli di testa, Drive my car ha inscenato la propria premessa, le circostanze precedenti sono chiarite, il “da dove viene” anche; ora comincia la storia e con essa il viaggio, poichè l’uomo deve superare il lutto.
Si getta nel lavoro, ma se ne deve allontanare perché troppo provante. A due anni dalla devastante perdita, viene chiamato a dirigere una residenza teatrale per un festival ad Hiroschima, con restituzione dello spettacolo nel teatro della città: l’organizzazione gli impone un autista che lo scorti dall’alloggio riservatogli alla sala prove. Yusuke è refrattario all’idea che qualcuno entri nel proprio feudo, ora ancor più carico di simboli e ricordi, ma Misaki (Toko Miura), la ragazza incaricata, vince la sua ritrosia, rivelandosi guida schiva, sincera, taciturna, una compagna di silenzi e dolori, che possiede la stessa lunghezza d’onda dell’uomo, un paritetico abisso da cui prendere distanze.
Come lei, molti degli attori con cui si trova a lavorare, tra cui anche Koji (Masaki Okada) il giovane con cui Oto tradì il marito, toccano inaspettatamente Yusuke; le prove e lo spettacolo diventano un’indagine sul senso della vita e della sopportazione, che dal tempo del drammaturgo russo non ha perso una goccia di verità, e molta di quell’arte praticata porta con sé un bagaglio umano capace di ridimensionare ogni ferita, illuminandone, attraverso gesti e parole, la sofferente cecità.
Drive my car – Recensione
Haruki Murakami, autore iconico già fonte di ispirazione per l’enigmatico Burning firmato da Lee Chang-dong, torna a dare spunto anche al film di Hamaguchi, tratto da un omonimo racconto appartenente alla raccolta Uomini senza donne, qui ampliato e mescolato con altri racconti dello stesso autore.
Drive my car è l’esercizio di un tema, architettato e cadenzato in modo coraggioso ed immaginifico all’interno di un arco spaziale e temporale che si sforza di essere compiuto (a differenza dell’episodicità del precedente La ruota del destino e della fantasia): parliamo della perdita, della fine di un pezzo di noi, di una sepoltura interrotta o impossibile anche per nostra mancanza, che deve essere affrontata e riconvertita per poter andare avanti.
Storia di sentimenti implosi, odio, amore, collera con l’altro e con Dio, cui rinfacciare la sofferenza che si è costretti a patire, storia di un’infelicità che si deve ammettere senza pesare sul prossimo, ridendo tra le lacrime, di un silenzio che non vuole sbloccarsi e non vuole uscire di scena, di un disprezzo che non si riesce a provare, di una passione che non si può qualificare, di una comprensione del mondo altrui che sempre viene posposta, sminuita, non attenzionata, giudicata pratica imbelle e vana quando, a volte, è l’unica arma di salvezza, la sola pratica d’amore che è ancora concesso mettere in atto senza passare dall’ingombro nocivo di se stessi.
Così Misaki, con un’infanzia atroce, dei ricordi gelati e funesti, piccola donna in un corpo di bambina, ama guidando e permette la catarsi, con il cappello in testa, il volante fermo, la velocità costante, annienta scosse, strattoni, frenate, riesce a far dimenticare la strada, il rumore del motore, annulla lo spazio, tanto che a Yusuke non sembra più di essere in macchina, non prova più pudore, né disagio nel sentire davanti ad un’estranea la voce registrata della moglie che ripete Cechov l’immortale, né vergogna nel fronteggiare chi gli fu rivale nel letto, né malessere nel raccontare quanto ha dovuto soffrire fin qui nella sua vita.
La macchina diventa uno spazio metafisico, il tragitto percorso un viaggio interiore, la ragazza un confessore santo, il Dio che potrebbe aspettarci oltre la morte, e al contempo un peccatore infinito, come tutta l’umanità, che è costantemente meno bella e meno sacra di quanto sogna di essere o di quanto vorrebbe apparire, come ripetono le pagine di zio Vanja, a lungo e fedelmente riportate nel film.
I luoghi del viaggio non sono casuali, dalla capitale Tokyo fatta di strade, autostrade, corsie, sopraelevate, palazzi freddi di vetrate ed ascensori, ad Hiroshima, il luogo della disfatta dell’umanità e della memoria come obbligo morale contro l’odio di tutti i tempi, il punto più atroce della storia, la promessa più solenne fatta alla stessa; attraverso le sigarette tra una sosta e l’altra, si arriva fino ad Hokkaido, dove la neve insegna il silenzio e da muta gela le radici di una casa, crollata sul rancore familiare senza cancellarne l’ombra di disgrazia.
Sono queste le tappe che un Dante-Yusuke ed una Virgilio-Misaki incontrano e condividono nell’inferno del cammin delle loro vite. Regista ed autista sono due individui che potevano salvare qualcuno, ma non l’hanno fatto, per paura, per codardia, per quella brutalità pietosa che fa dell’essere vivente una cosa imperfetta ed amabile, martiri benedetti e superstiti della morte, dunque testimoni dell’umanità.
Hamaguchi inserisce una storia semplice in un mondo di storie simili e complesse, costruendo rimandi simbolici che ispessiscono la portata della sua trama: è un grande orchestratore di personaggi, che lui studia, attiva e calibra in funzione di ciò che deve accadere, facendo scaturire dal loro comportamento la causa endogena di un cambiamento esteriore, compresa una svolta narrativa. Così lo sforzo e la follia di formare per le prove di zio Vanja un cast internazionale, dal coreano, al cinese, dal giapponese all’inglese, fino ad arrivare ad una Sonja (carne cecoviana per eccellenza, che porta la croce della sua filosofia, la verità insostenibile del limite che siamo), totalmente muta, capace di esprimersi nel linguaggio dei segni, e di incantare con quest’arte in due monologhi specifici quello della morfina e quello finale, di un impatto viscerale elevatissimo ed inaspettato.
Drive my car è dunque un’opera piena di voci, di idiomi differenti, che spiazzano ed incastrano, seducono e distanziano, è un film di pratiche poco frequentate come lo spiare le prove teatrali pre-debutto in cui si richiede di scarnificare la parola al minimo necessario, senza tono né emozione, dicendola e basta, secondo un iter che tiene d’occhio il testo, letterario e drammaturgico, in esso confida ed affida tutto il deducibile, traendone la soddisfazione e l’eco più grandi.
Così abbondano porzioni originali di zio Vanja incredibilmente calzanti, nonché sequenze di dialoghi che sbirciano nell’intimo e confessano anche oltre la necessità, lasciando aperte sessioni verbali piene di grazia e di poderosa importanza, alternate a mutismi che sanno capirsi, che ascoltano frasi intere di chi non c’è più, come Oto o lo stesso Cechov, i quali non ne vogliono sapere di diventare lapidi.
Il duro testo per combattere l’oblio, sfuggire alla sordità del cuore, alla cecità della vista (Yusuke è affetto da un glaucoma di cui deve prendersi cura e che gli impedirebbe di guidare in sicurezza), scontrandosi con la verità della pagina, della voce, della storia costruita e poi decostruita, reinterpretata, riascoltata, con tutti i sensi a disposizione ed anche di più, una pagina che deve parlare, deve spiegare, deve trasmettere ciò che ancora non sappiamo capire, superando l’inciampo del linguaggio per comunicare un mistero personale ed universale. E con questo e su questo il cinema di Hamaguchi prova a fare composizione. Drive my car è una bella prova tematica, diretta con polso, libertà creativa e delicatezza, portata alle estreme conseguenze, un’ elegante, gentile cicatrice ricamata sull’abisso, che reinterpreta certa tradizione ed impreziosisce il classico.
L’ambientazione teatrale che obbliga al confronto, frantuma l’unicità del punto di vista, moltiplica l’ascolto, stilizza la parola, abbatte frontiere, disagi e paure è una giusta scelta: un limbo del possibile che contiene il segreto, lo sa svelare senza usare didascalie, evocandole, arrivandoci in modo obliquo, lasciando una sospensione che lo spettatore colma via via di senso, privato ed universale.
Drive my car – cast
Non a caso gli attori di Drive my car sono in totale agio tra loro, soprattutto nella parte riferita alle prove, di cui si riproducono dinamiche, improvvisazioni, disturbi, dubbi, modalità, come un training che li attiva positivamente riportandoli dentro il nucleo del film.
Ogni volto poi è arto della storia: Yusuke-Nishijima, ombra e luce sulla pelle scura e marcata, quasi a preannunciare un segno di irresistibile resa dei conti da affrontare, Misaki-Miura bestiola empatica, fatta di solitudine inquieta, silenzi plastici, collo in allarme e occhi da prima-di-una-tempesta, Koji-Okada idolo bellissimo e dannato, cuore grande, fragile e profondo, in cerca di risposte, mangiato da una solitudine esistenziale che divora come lui i principali caratteri del film e corrode da sempre l’anima buona del Giappone tradizionale, restio ad aprirsi, storicamente chiuso e vergognoso delle proprie emozioni, incapace di gestirne altrui.
Hamaguchi si rivela buon maestro anche nel controllo delle inquadrature, sia nei campi e controcampi strettissimi, che trasformano l’iconica Saab in un tempio della verità, sia nelle scene più corali con gli attori presi e lasciati liberi in situazione, con discrezione e divertimento, dentro e fuori il tavolino di prova; il suo sguardo attira e concilia l’universo che sta sul palco, con sprazzi di dietro le quinte, tra fatica, ringraziamenti ed inquietudine che costellano l’esperienza di un attore, passando da un Godot beckettiano in cui Gogo e Didi si danno appuntamento a domani per morire, ad uno zio Vanja che vorrebbe sparare ma sbaglia il colpo, vorrebbe morire, ma è condannato a vivere, e in questa vita è costretto a trovare la luce.
Per riuscire nell’impresa, Hamaguchi sfida le nostre abitudini di attenzione con quasi tre ore di montato, la durata di un’anestesia medio-profonda, per resettare il senso di colpa, condividere il buio e l’impotenza e risvegliarsi ancora vivi in un inizio di sollievo: per tante cose ci vuole tempo, per la scoperta e la persuasione, per l’elaborazione di una mancanza definitiva, per permettere ad un interprete di aprirsi in scena, per lasciare che un testo russo arrivi dove vuole lui, per concedere ad un regista di guidarci fin dove noi volevamo, ma ancora non sapevamo.